«Nella città di Barcellona, la vita quotidiana comincia a essere profondamente alterata, dal punto di vista dei suoi abitanti. Da una parte, il turismo etilico del fine settimana o anche di un’unica e prolungata notte, con il suo strascico di liti, rumore e una vasta semina escatologica. Dall’altra, il volume e il peso di un turismo che porta a spasso le proprie carni per tutta la città, in costume da bagno e sandali. E, in accordo con la domanda, il centro urbano che si configura in un’immensa superficie commerciale di abiti e cibo spazzatura. In quanto ai monumenti, è facile localizzarli dalle pazienti code che li avvolgono, i gruppi che si accalcano, le macchine fotografiche che si alzano a mo’ di saluto al sole».

Così, in un articolo apparso su El Paìs nel novembre del 2005, Juan Goytisolo raccontava la sua città, dove non viveva più da anni ma che visitava spesso, tra l’uno e l’altro dei suoi viaggi di lavoro o di scoperta in paesi lontani. Scomparso pochi mesi fa, il grande scrittore ha fatto in tempo ad assistere agli ulteriori sviluppi di una trasformazione accelerata dall’avvento di Airbnb e delle grande navi da crociera, e al rimodellarsi di una Barcellona incredibilmente diversa da quella dov’era nato nel 1931 e che avrebbe visto prima sotto le bombe italiane, poi vessata dal franchismo, quindi in pieno fermento culturale e in impaziente attesa della scomparsa del dittatore, affamata di cambiamenti e di diritti durante la transizione, e infine reinventata per le Olimpiadi del ’92: una città modernissima, memore delle sue lotte e fiera delle sue conquiste sociali, ma soprattutto decisa, come sempre, a realizzare buoni affari.

E QUALE AFFARE più ricco e promettente del turismo di massa, che però, dichiara uno scrittore famoso come Julio Llamazares, per troppo successo e per assenza di regole rischia di trasformarsi «nell’ultima piaga dell’umanità», e che proprio in questi giorni ha fatto deflagrare il malcontento e le contraddizioni maturati a poco a poco nella capitale catalana, scatenando un fragoroso dibattito che sembra capace di offuscare perfino l’imminenza del referendum indipendentista, e che si dipana tra polemiche, slogan, piccoli sabotaggi, proteste, multe, divieti, provocazioni e, a sorpresa, anche storie da ridere come Sakamura y los turistas sin karma (Editorial Destino, pp.285, euro 25,75), il nuovo romanzo che Pablo Tusset e il suo editore hanno mandato in libreria ai primi di giugno.

Nonostante il tempismo perfetto, non si tratta di un instant book, perché Tusset ha cominciato a pensarci dopo aver trascorso quasi un decennio in un piccolo paese vicino a Gerona, dove era andato a smaltire l’enorme successo di Lo mejor que le puede pasar a un cruasán (mezzo milione di copie vendute, un film e un’infinità di traduzioni), il suo primo romanzo, uscito nel 2001 e pubblicato anche in Italia («Il meglio che possa capitare a una brioche», Feltrinelli).

Al suo ritorno, lo scrittore ha trovato un’altra Barcellona: «A un tratto era piena di pappagallini verdi, gli adulti portavano i pantaloni corti e i turisti si erano moltiplicati». Ma nel frattempo era cambiato anche lui, informatico di professione e romanziere per vocazione, per scherzo e perché sì; aveva, per esempio, scritto una novela nerissima, amara e comunque divertente, En el nombre del cerdo («Nel nome del porco», Feltrinelli), e pubblicato un paio di romanzi «seri» firmati col suo vero nome, David Cameo, senza per questo rinunciare al suo lato più sfrenatamente umoristico, che l’ha portato a inventarsi un anziano ispettore giapponese dell’Interpol, protagonista di una prima avventura intitolata Sakamura y los muertos rientes (Destino 2011), e ora riapparso in un sequel distopico dove Barcellona è divenuta Barna City, città-stato e capitale dell’Estrema Europa.

TRASFORMATA in un parco tematico che vive solo in funzione dei turisti, Barna City ha cambiato nome a strade e piazze, ora intitolate a cantanti pop, attori e stelle del rock, eliminando le statue degli eroi locali (che ai turisti non interessano) e sostituendole con quelle dei personaggi di Tolkien, mentre la Sagrada Familia (opera inconclusa di un certo Tony Gaudì) è riconvertita in un aquapark con un immenso tobogan in costruzione.

È in questa città fasulla all’ennesima potenza, dove tutto corrisponde al più puro distillato dell’immaginario turistico, che a un tratto due impudenti visitatori giapponesi cominciano ad attaccare vecchi e bambini, imponendo a Sakamura di lanciarsi in un’indagine complicata che include un hipster surgelato, una giovane hacker incapace, un misterioso gatto poliziotto di nome Telefunken, e infine due grandi cattivi, ovvero un certo Moriarty e il suo amico Pablo Tusset, fattosi personaggio del suo stesso romanzo. Il tutto, com’è naturale, con accompagnamento di turisti a migliaia, anzi a milioni…ma soltanto di turisti si tratta, o di qualcosa di molto più inquietante?

ESILARANTE e frenato, il romanzo di Tusset è in realtà un surreale fumetto senza immagini, stipato di riferimenti letterari, musicali, cinematografici, e apertamente parodistico: un Blade Runner alla catalana in salsa all inclusive (ma che non esita a mettere in berlina, oltre al turismo e alla tecnologia, anche le aspirazioni indipendentiste), in cui si disegna il ritratto di una Barcellona preapocalittica e «posguapa», così come, a suo tempo e con ben altri esiti letterari, un piccolo classico quale Nessuna notizia da Gurb di Eduardo Mendoza aveva narrato la Barcellona postolimpica.

Di ridere, comunque, non si può fare a meno, leggendo questo romanzetto tra il demenziale e il goliardico, ma tutt’altro che sciocco e con qualche temibile accenno profetico, che offre anche uno spunto ottimista,se non altro perché fa presente che dal turismo di massa possono nascere, oltre alla gentrificazione, a enormi profitti per gli speculatori internazionali e alla devastazione dei quartieri e delle comunità che li abitano, anche prodotti culturali appetibili. Tusset (che peraltro viaggia poco, perché non vuole essere «uno di loro»), si rifiuta del resto dichiararsi pessimista: sì, ammette, al centro e alla rambla i barcellonesi hanno dovuto rinunciare, ma continueranno a tirare avanti benino, finché sapranno ricavarsi «un angolo tutto per loro».

Harkaitz Cano, scrittore basco che, con la stessa tempestività di Tusset, ha appena pubblicato una raccolta di malinconici racconti intitolata El turista perpetuo (Seix Barral, pp. 240,euro18,50), dichiara invece: «può anche darsi che i viaggi low cost siano una specie di continuazione logica delle navi negriere. Prima si caricavano gli schiavi sulle navi, come merce destinata a un traffico, e ora facciamo lo stesso, ma in un modo molto più friendly. Viaggiamo convinti di esercitare il libero arbitrio, ma, in fondo, chissà che non ci muovano come un flusso di schiavi 2.0». E forse non è una coincidenza che il suo libro e quello di Tusset arrivino proprio dalle regioni dove più forte è la pressione turistica e più vivace la protesta: Arran, il gruppo giovanile e aggressivamente turismofobico legato alla catalana Cup (Candidatura d’Unitat Popular), ormai è presente anche nel Paese Basco, con le sue scritte sui muri e azioni dimostrative come l’ormai famoso assalto al bus turistico barcellonese.

C’È QUALCUNO, però, che ha pensato di usare gli ingombranti autobus turistici a due piani per un altro scopo, e cioè per produrre comunque cultura. Tra giugno e luglio, infatti, a Barcellona si è svolta una nuova edizione del FADfest (Festival de las Artes y el Diseño), il cui tema è stato proprio il turismo, affrontato da punti di vista diversi e con il contributo di nomi illustri come Michael Web, fondatore negli anni ’60 dell’Archigram Group.

Tra le tante proposte del festival, una riguardava proprio i famigerati bus, alcuni dei quali sono diventati sede di mostre itineranti; di quartiere in quartiere, hanno portato in giro per la città una gran quantità di informazioni, come grafici e mappe sull’attività turistica, ricerche sul contatto tra turisti e residenti, video con interviste che offrono il punto di vista di entrambi, e perfino installazioni sui classici souvenirs prodotti in terre lontane e venduti in ogni angolo di Barcellona: una valanga la cui estetica terrificante e stereotipata si rovescia ogni giorno sulla «vera» immagine della città sino a sfumarne i contorni e a sostituirli.

Che sia il caso di ragionarci sopra, oltre che di inorridire? Perché, come ha notato il responsabile della mostra, Ramón Faura, prima o poi «tutti siamo turisti. È un fenomeno che si deve analizzare senza pregiudizi, in tutta la sua complessità».