In ogni delirio, sosteneva Freud, c’è un frammento di verità. Non fa eccezione il racconto di Barbara O’ Brien in Operatori e cose Confessioni di una schizofrenica, resoconto autobiografico di uno scompenso psicotico durato sei mesi e della progressiva ristrutturazione della realtà che ne è seguita, pubblicato per la prima volta a Los Angeles nel 1958, riedito nel 1976 e nel 2011 e ora tradotto per la prima volta in italiano da Adelphi (da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, pp. 251, € 19,00). Opinabile come in tutte le opere che si dichiarano autobiografiche, la veridicità del racconto ha comunque valore esemplificativo rispetto a una serie di elementi caratteristici della condizione psicotica, a partire dalla congiuntura, per molti aspetti clinicamente «tipica», in cui si verifica l’esordio dello scompenso.

Il delirio si innesca infatti nel contesto di un lavoro aziendale, fatto di invidie, rivalità, ambizioni, tentativi di ostacolare la carriera altrui a profitto della propria; esperienze frequenti in molti ambienti professionali ma radicalmente inintelligibili nella condizione psicotica, la cui logica è molto più stringente di quella comune. Ciò che può risultare metaforicamente insensato è per la narratrice letteralmente insensato; il delirio interviene allora per cercare di dare forma a un’esperienza altrimenti incomprensibile. Come scrive con grande acume Barbara O’Brien, a proposito dei suoi deliri: «c’era sempre un nemico minaccioso, orribile, ma un nemico orribile che era facile da capire. Quel mondo immediatamente leggibile, gravato da un unico problema, inondava la spiaggia arida, andando a rimpiazzare una moltitudine di problemi di insostenibile e nebulosa complessità cui la spiaggia non riusciva più a far fronte».

Protagonista di un esperimento
La spiaggia arida, ovvero la mente della narratrice, riorganizza il mondo dividendolo in Operatori e Cose, dove i primi controllano le seconde; i suoi subdoli colleghi sono quindi Operatori in guerra tra loro per il controllo delle Cose, tra cui rientra lei stessa, la voce narrante, divenuta adesso protagonista di un esperimento: che succede se gli Operatori si rivelano a una Cosa, rendendola consapevole della loro esistenza e delle loro intenzioni?

La trama del delirio allucinatorio, simile come spesso accade a un racconto di fantascienza, ha la particolarità di essere stata ritessuta dall’autrice a distanza di tempo da quella esperienza di scompenso psichico. Diversamente dalle Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber – probabilmente il più noto resoconto autobiografico di psicosi – Operatori e cose viene scritto in un momento in cui Barbara O’Brien non crede più al suo delirio; ciò rende conto della forma romanzata, accattivante, a tratti umoristica, della narrazione, che non ha l’intento, come in Schreber, di dimostrare la giustezza della costruzione delirante ma sembra propedeutica a quello che appare, nella seconda e decisamente più interessante parte del testo, un lavoro di ricerca, di teorizzazione sull’esperienza della schizofrenia.

Ritrovato l’uso della metafora, questo lavoro si avvale ora efficacemente delle rappresentazioni deliranti per teorizzare: l’inconscio, che la narratrice chiama anche Qualcosa, può essere pensato come un Operatore, la coscienza come una Cosa, il primo dirige la seconda generalmente senza che quest’ultima se ne accorga, uscendo allo scoperto soltanto, appunto, nello scompenso schizofrenico. Inconscio a cielo aperto lo definiva Lacan: ossia, che non si nasconde più nei lapsus, nei sogni o nei sintomi come nella nevrosi ma si manifesta senza remore nelle allucinazioni e nei deliri. «Al comando» scrive Barbara O’Brien.

Arrivando a conclusioni per molti aspetti analoghe a quelle della teoria psicoanalitica, l’autrice individua nel delirio e nelle allucinazioni un tentativo di guarigione, come sosteneva Freud, un modo di riconquistare rapporti significativi con la realtà, seppure una realtà bizzarra e distorta dalle formazioni deliranti. E forse, almeno nel caso di O’Brien, il tentativo ha un successo che va oltre le aspettative, conducendola attraverso lo scompenso a «una nuova forma di sanità mentale». Merito di Hinton, l’Operatore ribelle e anticonformista che agisce, in fondo, come dovrebbe ogni analista nel trattamento della psicosi: accompagnando la persona verso una strategia di stabilizzazione che possa fare a meno del delirio. Quella strategia si risolve in un lavoro meno convenzionale di quello aziendale, in un ambiente sociale meno rigido, si traduce in scrittura e in particolare in una scrittura autobiografica che funziona da supporto identitario.

Nelle sue differenti versioni, che vanno dall’iscrizione materiale, corporea, del tatuaggio alla invenzione letteraria, il processo della scrittura accompagna spesso la condizione psicotica in funzione disalienante, come un tentativo di sottrarsi alla cattura annichilente dell’Altro (si pensi alle strategie linguistiche dello scrittore statunitense di lingua francese Louis Wolfson per sottrarsi alle sonorità della lingua materna). E la scrittura autobiografica è, naturalmente, estremamente rappresentativa di questa manovra che consente all’autrice di identificarsi come narratrice e viceversa. Le permette di autostoricizzarsi, avrebbe detto Piera Aulagnier, autrice di La violenza dell’interpretazione, presupposto indispensabile per poter dire Io, per dare un senso di continuità all’esistenza.

Nessun dato biografico
È tanto più radicale la autostoricizzazione dell’autrice che si firma con lo pseudonimo di Barbara O’Brien in quanto di lei non sappiamo nulla al di là della testimonianza che ha voluto lasciare con la sua opera; a rigore non sappiamo nemmeno se sia davvero una donna, o se sia statunitense. Nel suo caso dunque non ci si può neanche chiedere, come fa Paul-Laurent Assoun a proposito di Artaud, parafrasando Tristan Bernard, se «Barbara O’Brien è l’autrice dell’opera che porta il nome di Barbara O’Brien», perché non c’è nessuna Barbara O’Brien a cui fare riferimento al di là della firma dell’opera.

Di lei si può dire, anzi, l’opposto di quanto sostiene Assoun a proposito di Artaud: per il poeta francese, l’Io è un altro di rimbaudiana ascendenza viene portato alle estreme conseguenze, definendo la rigidità di un’alienazione con cui «non è possibile giocare»; per Barbara O’Brien, invece, sembra esserci soltanto un Io, quello che scrive e che si scrive al contempo: un Io autore, integralmente autobiografico. Fin dal titolo della sua testimonianza – confessioni di una schizofrenica – questo Io si fa rappresentare dal significante schizofrenia.

Non a caso Barbara O’Brien sembra non concordare con l’antipsichiatria di Laing, continuando a tenere fermo il punto sulla «incurabilità» della propria «malattia»; e su questo conclude con un capitolo, La nuovissima minoranza, aggiunto nella riedizione degli anni Settanta: in gioco è la propria posizione esistenziale, quella dalla quale è riuscita a testimoniare e a rendere teoria quanto si trova nel suo libro.