Legata a un palo, e circondata da una folla pronta al linciaggio c’è una ragazza coi lunghi capelli corvini e lo sguardo magnetico, l’hanno condannata al rogo per aver venduto la sua anima al diavolo. Inizia così La maschera del demonio, il capolavoro del maestro dell’horror Mario Bava (1960). La ragazza mora di cui sopra è Barbara Steele, attrice inglese icona del gotico: «Bava mi scritturò senza neanche avermi incontrata, vedendo solo le mie fotografie. E quel film ha segnato la mia vita». A Roma per il FantaFestival, la signora dell’horror ha oggi 77 anni ma lo stesso sguardo magnetico, anche se – all’opposto della diva del passato di Billy Wilder, Norma Desmond – si schernisce: «Nessun close-up, per favore».

 
Barbara Steele però non è sul viale del tramonto, racconta il suo passato glorioso come il suo presente, in cui continua a recitare, dipinge – «adesso sto lavorando ad una serie di quadri su dei cani che combattono» – e vive, anche lei, a Los Angeles.

 
Tutto ha inizio dunque nel 1960, l’anno in cui esce il film che la lancia nel mondo dell’horror. Contemporaneamente sulle locandine americane campeggiava l’Elvis Presley di Stella di fuoco, il western di Don Siegel in cui The King recita al fianco di Barbara Eden. Poco prima Steele aveva firmato un contratto con la 20th Century Fox, gli Studios volevano lanciarla come la nuova diva: «Mi avevano fatta bionda! – esclama – ci potete credere?».
Il primo film per cui venne ingaggiata fu proprio il western di Don Siegel: «E sapete perché? Perché sapevo andare a cavallo, come molte ragazze inglesi».

 
Ma questo, racconta ancora l’attrice non accadde mai. «In una scena, dopo un massacro, galoppavo per duecento miglia in mezzo al deserto, ma ero vestita come Doris Day, con una maglia a scacchi bianca e rosa e dei meravigliosi pantaloni immacolati … Ho pensato che fosse assurdo, che avrei dovuto avere un aspetto disastroso dopo tutto quello che era successo, e non sapevo ancora nulla di come si fa un film. Così ho preso del fango e della sporcizia e me la sono spalmata addosso. Tutti sono impazziti, si sono infuriati. Strillavano:’continuità!’. Ed io: ’cos’è la continuità?’. È arrivato anche il regista, e alla fine ho dato di matto: ho buttato tutti i miei costumi a terra, ho detto addio per sempre e ho preso un volo per New York».

 
È così che la futura regina del gotico arriva in Italia. «Era come Parigi negli anni ’20: il posto giusto al momento giusto». E aggiunge: «Inoltre l’Italia mi era incredibilmente familiare, come se ci avessi vissuto per centinaia di anni e stessi tornando a casa».

 
Per descrivere Mario Bava usa un ottimo italiano: «Era un uomo gentile, civile e discreto».
«Il set di La maschera del demonio era come quello di un grande film noir, tutto in bianco e nero e con delle architetture sbilenche. L’horror a quei tempi era molto elegante, psicologico, non come la spazzatura che fanno oggi: claustrofobica, con il sangue che schizza da tutte le parti».

 
Ed horror fu. Da quel momento in poi il nome di Barbara Steele si lega indissolubilmente al genere, specialmente in Italia, dove nel 1962 lavora anche con Riccardo Freda in L’orribile segreto del dottor Hichcock. «Pure se non avevano grandi budget quelli di Freda sembravano sempre grandi film. Mi ricordo che in un’occasione non avevamo un dolly e lui disse:’fa niente, mettiamo la camera sul tappeto e voi tirate il carrello’».

 

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Dopo vennero Antonio Margheriti, Lucio Fulci e molti altri. Nel 1961 Roger Corman la richiama in America per recitare al fianco di Vincent Price ne Il pozzo e il pendolo. «Credo che Corman sia riuscito a girare tutto il film in una settimana» ricorda Steele, che nel ’68 tornerà invece nella natia Inghilterra per recitare in Black Horror – Le messe nere di Vernon Sewell, al fianco di altre due leggende del genere: Boris Karloff e Christopher Lee, il grande attore scomparso pochi giorni fa.

 

 

«Christopher era un perfetto english gentleman. Aveva un appartamento meraviglioso a Londra, molto gotico e dark. Nel bel mezzo della sua stanza c’era una sorta di trono – una sedia vittoriana in velluto scuro – in cui sedeva un po’ più in alto di noi con il suo grande anello al dito. Mi sentivo come se mi dovessi inginocchiare e baciarlo!». Ride ma il suo racconto si vela di malinconia, e non solo per la recente morte del collega. «Anche Christopher, come molti attori con cui ho lavorato, era estremamente frustrato dal fatto che la sua carriera fosse stata definitivamente etichettata dall’horror, se ne sentiva perseguitato. Credo che avrebbe potuto essere un grande attore shakespeariano, come Vincent Price del resto, anche lui estremamente intelligente, grande collezionista d’arte e meraviglioso oratore».

 
«Tutti questi uomini rimasti intrappolati nel mantello del gotico, che è ciò che le persone volevano vedere». Barbara Steele, ovviamente, sta parlando anche di se stessa: «Si è sempre segnati dal primo successo, è quasi impossibile sfuggirvi. Avrei voluto fare anche altre cose, e ne ho fatta qualcuna, ma alla fine sono famosa solo per i miei ruoli gotici».

 
Tra le «altre cose» c’è L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli, ed uno dei ricordi più cari dell’attrice inglese: il suo ruolo nei panni di Gloria Morin in 8 ½ di Fellini: “Sui set di Federico c’era chiunque: preti, prostitute, madri con i figli …tutti volevano lavorare con lui». Tra gli altri c’era sempre anche un mago siciliano: «Aveva lunghi capelli neri, sembrava Rasputin. Tutti i giorni rompeva un uovo in un bicchiere con del liquido dentro, che poi agitava. Fellini diceva: ’allora?’. E lui: ’va bene, va benissimo’. Poi un giorno dovevamo girare la sequenza nella spa, e c’erano centinaia di comparse, tutti vestiti e truccati alla perfezione. Ma quest’uomo rompe l’uovo nel bicchiere e dice: ’oggi no’. Federico si rifiuta di girare e Rizzoli, il produttore, è impazzito… Ma lui insisteva perché ci credeva davvero in queste cose, e mi sa che ci credo anche io».

 
Negli anni 70, Barbara Steele torna a Roma per girare di nuovo con Fellini il Casanova: «Dovevo interpretare una donna che cura gli uomini dall’impotenza, molto prima del viagra, con dei riti e delle pozioni magiche. Purtroppo la mia parte è stata tagliata».

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In quei tempi in compenso la regina del gotico prende parte al debutto di una serie di grandi nomi, che si conclude due anni fa con il film d’esordio di Ryan Gosling: Lost River. Una processione di registi armati di fiori alla sua casa di Malibu per chiederle di recitare nel loro film «perché – spiega l’attrice – io non ho un’agente, e le persone devono venire da me per offrirmi un lavoro». Fra i primi c’è David Cronenberg, che si presenta da lei «con un enorme mazzo di calendule arancioni» per chiederle di partecipare a Il demone sotto la pelle, il suo primo horror del 1975. Poi vengono Joe Dante con Piranha – prodotto da una vecchia conoscenza, Roger Corman – e Jonathan Demme con Femmine in gabbia. «Erano tutti ragazzi stupendi, non potrei dire nulla di male di loro», ricorda Steele.
Il più grande rimpianto, nonostante tutto, è però avere lasciato l’Italia. «Andarmene è stato un errore terribile che non mi perdonerò mai. Ho sognato l’Italia almeno una volta alla settimana per 15 anni… come la pelle di un ’adorato’».

 
L’Italia dove è stata imprigionata nel «mantello gotico» ma che l’ha resa una diva, lontano da Hollywood. Nel 1960, da New York dove era fuggita dal set di Stella di fuoco, aveva chiamato la produzione: «Ho detto: ’se volete sapere perché non sono al trucco è perché sono a New York’. E loro: ’Ma sei impazzita?’. ’Si, e non tornerò’.Così mi hanno detto: ’Non lavorerai più qui’. Ed era la verità».