«Attenta Signora. Non entrare, in questo posto c’è la macumba». Il bambino stava seduto all’ingresso del cimitero a giocare con un sasso e volle mettere in guardia dalla magia nera quell’ospite così diverso dai tossici di crack che di solito venivano a fumare dalle lattine e a dormire sulle tombe. Daniela Arbex, reporter speciale della Tribuna de Minas, però, non si fece intimidire ed entrò lo stesso. In quel camposanto stava interrata infatti uno delle stragi più grandi che l’America Latina avesse mai conosciuto dai tempi dei conquistadores e lei era lì per riportare tutto in superficie.

La città delle rose con molte spine

Fino a pochi mesi fa, la città brasiliana di Barbacena era nota soprattutto per essere uno dei più grandi produttori mondiali di fiori. I tentativi di raccontarne il lato oscuro erano sempre falliti. Ci provò il New York Times, ci provò la rivista O Cruzeiro, ci provò un giovane documentarista, un importante scrittore ed anche il grande neurologo e psichiatra italiano Franco Basaglia, che dopo esserci stato disse: «Oggi ho visitato un campo di concentramento nazista».

Ma dopo, tornava sempre il silenzio. Poi, Daniela ha scritto il libro Holocausto Brasileiro e da giugno a questa parte, momento in cui il libro è arrivato nei negozi brasiliani, la città delle rose è diventata la città dei fiori del male.

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Ufficialmente, la Colonia di Barbacena fu un grande manicomio in cui una scienza bambina come la psichiatria commise alcuni errori di gioventù, ma poi trovò la retta via delle cure genuine col sacrificio dei primi eroi, morti in terapie d’esplorazione come scimmie nello spazio. La realtà, invece, è un po’ diversa. Tra il 1903 e il 1980 questa struttura, che sorge a 300 km da Rio de Janeiro, fu usata come luogo di confino per personaggi scomodi di ogni genere. Più dei due terzi delle incalcolabili migliaia di pazienti che passarono per le sue galere non soffrivano di alcuna patologia mentale, ma avevano invece pestato i piedi a qualcuno, che aveva un buon piano per toglierli di mezzo.

In tanti anni, i treni che arrivavano da tutto il Brasile scaricarono sul binario morto della Colonia una varietà immensa di persone: attivisti politici, prostitute, ladruncoli di quartiere, omosessuali, amanti divenute troppo pretenziose, mogli sostituite dalle amanti, negri poiché negri, epilettici, ubriaconi e mendicanti. Per prima cosa, venivano privati di ogni proprietà e vestiti con l’azulão (l’indumento unico e azzurro di Barbacena che serviva per tutte le stagioni) e poi introdotti a forza nell’oblio.

Nella storia della struttura ci furono sempre pochi infermieri ed ancor meno medici. La baracca veniva portata avanti con metodi spicci: il rancio vomitevole (ogni giorno sempre lo stesso) servito in mano o direttamente sul pavimento. I bagni erano intasati e si lasciavano così. L’azulão si lacerava e il paziente poteva girare nudo. Qualcuno veniva beccato a mangiare un topo, perché stravolto dalla fame, e gli si strappavano i denti così non lo mangiava più.

E questo non è niente

Queste cose sono così crudeli da sembrare inventate e invece non sono che gli aspetti più soft di questa casa degli orrori che fu Barbacena. Uno delle sue peculiarità, per esempio, fu la massificazione dell’elettroshock. Geraldo Magela Franco, che entrò alla Colonia come guardia e nei successivi 29 anni di servizio fu promosso sul campo a paramedico, riconosce oggi che «l’elettroshock e gli psicofarmaci non avevano sempre propositi terapeutici, ma più che altro di contenimento o intimidazione».

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Quando alla Colonia ci davano dentro sul serio, in città mancava la corrente. Francisca Moreira era una cuoca e si ricorda che un bel giorno fu chiamata insieme ad altre 20 donne a fare pratica su un gruppo di pazienti scelti a caso. Aveva richiesto di diventare infermiera e, come tale, doveva saper usare la macchina. La prima a provare fu Maria do Carmo, che lavorava in cucina con lei. Le guardie legarono alla branda un ragazzo di 20 anni e diedero qualche istruzione sommaria: bagnare la fronte, girare la manovella e appoggiare gli elettrodi alle tempie. 110 o 120? si chiese Maria. Scelse la seconda, ma non andava bene. Troppi volt per un uomo solo, così le guardie dovettero cambiarlo con un altro, anche più giovane del primo che era morto subito. La seconda candidata tremava, ma si fece forza. Prese un bel respiro ed appoggiò gli elettrodi. Anche questa volta, però, la cura superò il paziente. La serata era appena iniziata ma Francisca aveva già capito che il mestiere non faceva per lei e scappò.

L’offerta superava la domanda

In 80 anni sono morte a Barbacena più di 60 mila persone. Dopo un po’ di tempo i capi si resero conto che potevano fare un sacco di soldi vendendo i morti alle facoltà di anatomia. Prendevano 120 euro a pezzo. Il problema sorse nei mesi più freddi, quando morivano più di 15 persone al giorno e l’offerta superava la domanda. Così, dovettero sciogliere l’esubero con l’acido in cortile, davanti agli altri.

Per quanto sembri incredibile, tuttavia, le cose più sorprendenti mai accadute a Barbacena non vanno cercate nell’infinito odio dei carnefici, ma nell’infinito amore delle vittime. Il fotografo Luiz Iñacio o il documentarista Helvécio Ratton visitarono la struttura negli anni Settanta e tra cento sguardi vuoti e addolorati, trovarono sempre almeno un sorriso nitido. Sueli, una delle ragazze più belle e carismatiche della Colonia, inventò un inno che tutti cantavano. Nelle notti d’inverno si faceva il mutirão dei letti. Mutirão è una parola brasiliana che significa azione collettiva, per raggiungere uno scopo. L’azione di mettere tutti i letti vicino, allo scopo di vivere.

A trent’anni dalla chiusura di questo inferno, non sono molti quelli che ce l’hanno fatta e nessuno ce l’ha fatta gratis. In tutto sono meno di 200. Adelina va sempre in giro con due vestiti perché ha dovuto viver nuda per troppi anni. Marcelo ci ha messo qualche mese ad imparare ad usare il materasso e il cesso. Tonho è figlio di una paziente. Negli ultimi tempi a Barbacena c’erano 33 bambini. Lui è uno dei 6 che sono sopravvissuti. Il 30 maggio del 2012 alle sei ha chiamato gli altri cinque a casa sua. Compiva 50 anni ed hanno ballato il samba.