Per essere una nicchia aristocratica, retrograda e costantemente minacciata di estinzione, il sistema dell’opera lirica ha offerto in questo anno, da una parte all’altra dell’oceano, più di un motivo di attualissima riflessione, dibattito e indignazione, connessi con le istanze del movimento #Metoo, fuori dalla scena e sulla scena. Il dittico Il castello di Barbablù di Bartók e La voix humaine di Poulenc offrono una formidabile proposta di duplice sguardo sulla concezione femminile del primo XX secolo: all’Opéra Garnier di Parigi il regista Krzysztof Warlikowski ha colto da metà marzo all’11 aprile scorso l’occasione di offrire una lettura delle due opere fitta di rimandi alla nostra contemporaneità.

Si può dire che ne abbia anzi colte parecchie, perché lo spettacolo a tratti travolge lo spettatore, talvolta felicemente altre volte assai meno, con un profluvio di scene e controscene aggiunte, misteriosi riferimenti simbolici e psicoanalistici, riferimenti iconografici, rimandi visivi espliciti o al limite del subliminale. Così il prologo iniziale della leggenda del castello si amplifica in una lunga scena di prestidigitazione (favolosi Relyea con colombe e conigli e Hannigan stralunata valletta) di complessa interpretazione finché poi la parete della parigina “maison de verre” di Pierre Chareau, capolavoro architettonico del primo novecento qui riprodotto su scala naturale, si solleva per raccontare una barbablù dei nostri tempi. Sette porte, teche di vetro fra lusso e design da far impallidire le vetrine di Place Vendome.

Perseguitato da ossessioni, fra cui un bimbetto afflitto da epistassi, malato forse, violento ma depresso e debole, Barbablù sembra a un tempo vittima e carnefice di Judith e delle tre misteriose mogli precedenti, silenti dame parigine dal glamour e dall’abbigliamento più che vistoso. Sulla parete-schermo e su un televisore campeggia a più riprese il volto della “bête” cinematografica di Cocteau, sotterraneo legame che ritorna anche dopo che Judith è stata consegnata fra le altre mogli, la parete vetrata si è richiusa ed è comparsa una nuova disturbante inquilina, la Lei di Poulenc, una Barbara Hannigan allucinata e acrobatica: tailleur pantalone sottile e aggressivo, pistola e trucco vistosamente disfatto, quasi un’immagine rubata alle pubblicità della fiera del lusso ( profumi, borse, abiti), canta e recita praticamente in ogni posizione. Forse una riflessione su come le manipolazioni della figura femminile non rendano la performante donna odierna sempre felice o libera.

Il monologo di Poulenc è un’ossessione post-omicida senza telefono, tanto che la dimora di vetro si riapre sul finale per riunire sulla scena, nei passaggi più drammatici la donna a Barbablù morente e sanguinante (una controfigura di Releya troppo a lungo in scena, effetto un po’ sciupato). Il buio mistero del castello, gli orizzonti infiniti dei domini di Barbablù, i gioielli, le lacrime, ogni dettaglio musicale viene reso con tagliente precisione, ricchezza coloristica e fantasia narrativa da Ingo Metzmacher sul podio dell’orchestra dell’Opéra, mentre John Releya è un tormentato Barbablù, perfetto anche scenicamente, e Ekaterina Gubanova quasi ruba la scena a Hannigan con la sua procace e proterva Judith. Metzmacher attraversa la florida scrittura di Poulenc con piglio nervoso ma senza sacrificare i passaggi più scopertamente lirici, e Hannigan a sua volta piega la sua strepitosa musicalità a un fraseggio vario, anche volutamente sopra le righe un’interpretazione di gran classe ma anche troppo carica di metallica aggressività. Successo travolgente con lunghissimi applausi e chiamate per tutti.