Due processi, uno in corso e uno che non si farà, indicano la “via giudiziaria” in cui è intrappolata la politica americana fra le ultime dirompenti sentenze della Corte suprema e l’inedito tentativo di golpe a opera di un presidente in carica degli Stati uniti, che però non verrà processato per il caso più lampante di alto tradimento nella storia della nazione.

CHE DONALD TRUMP sia salvo da un’incriminazione penale per i fatti del 6 gennaio è ormai chiaro dopo che Msnbc News ha reso pubblico, lunedì, un memo del procuratore generale Merrick Garland ai dipendenti del dipartimento di Giustizia, datato 25 maggio e intitolato Election Year Sensitivities – Criticità dell’anno elettorale. Una pietra tombale sulla speranza che le rivelazioni delle audizioni pubbliche della Commissione della Camera sull’attacco al Campidoglio portino in tribunale Trump e i suoi. «Ora che le elezioni del 2022 si avvicinano», scrive Garland alla sua squadra, «inoltro questo memorandum per ricordarvi le politiche esistenti del Dipartimento in merito alle attività politiche». Linee guida per le quali «dobbiamo essere particolarmente attenti a salvaguardare la reputazione di equità, neutralità e non parzialità del Dipartimento. Messa semplicemente: le politiche di parte non devono giocare alcun ruolo nelle decisioni di investigatori e procuratori federali in merito a qualunque indagine o incriminazione penale».

È EVIDENTE che la necessità di ribadire delle regole di semplice buon senso per un’istituzione governativa risponda in realtà al timore del procuratore generale di percorrere la strada più consequenziale rispetto agli atti criminali compiuti dall’ex presidente Usa, e cioè nominarli e trattarli per ciò che realmente sono. La paura di una ulteriore polarizzazione politica in vista del mid term che possa inghiottire il dipartimento di Giustizia è ancora più chiara nella scelta di Garland di sottolineare come gli impiegati debbano fare riferimento alle linee guida stabilite da William Barr, il procuratore generale di Trump, nel febbraio 2020, a meno di un anno dall’assalto al Campidoglio, in merito all’apertura di indagini criminali che coinvolgono «individui ed entità politicamente sensibili».

IN QUESTA PROSPETTIVA, è difficile immaginare che il processo che invece si è aperto lunedì con la selezione della giuria e l’inizio del dibattimento- quello a Steve Bannon per oltraggio al Congresso – cambi la situazione dell’ex presidente golpista. Ma potrebbe costare all’ex consigliere e manager della campagna elettorale di Trump fino a un anno di carcere. Bannon è stato incriminato per essersi rifiutato di comparire, a novembre, davanti alla Commissione d’inchiesta sul 6 gennaio, che voleva interrogarlo su ciò che è accaduto al Willard Hotel di Washington – quartier generale dell’”armata” golpista che ha cercato di convincere i deputati repubblicani a non certificare l’elezione di Biden – il giorno prima dell’attacco al Campidoglio. La settimana scorsa il giudice distrettuale di Washington Carl J. Nichols (nominato dallo stesso Trump), ha rifiutato gli argomenti della difesa per il processo, e in primo luogo che Bannon fosse protetto dal privilegio esecutivo, dato che aveva lasciato lo staff della Casa bianca già nel 2017.

A SUA DISCOLPA i legali di Bannon potranno usare solo argomenti «minori», che lo espongono a una probabile condanna da parte della giuria, dalla quale i suoi difensori hanno cercato di “estirpare”, senza troppo successo, chiunque avesse dato segno di interessarsi alle audizioni pubbliche della Commissione d’inchiesta sul 6 gennaio. Dopo che è fallito anche il tentativo di dimostrarsi improvvisamente desideroso di testimoniare, allo stratega dell’alt right non resta che patteggiare con il governo o affrontare il processo: prima o poi gli toccherà spiegare perché aveva previsto che il 6 gennaio 2021 si sarebbe «scatenato l’inferno».