Malgrado uno dei suoi simboli sia già diventato il 33enne Mounir Mahjoubi, figlio di un muratore marocchino e cresciuto alla fine del XII arrondissement di Parigi, ai confini della prima cintura periferica della capitale, appena nominato ministro degli Affari digitali, lo sguardo degli abitanti delle banlieue su questo debutto dell’«era Macron» resta incerto.

Per quanto incarni, sulla carta, la possibilità di un vasto cambiamento, forse anche nel segno dell’equità, il profilo del nuovo presidente appare a molti abitanti dei quartieri popolari di Francia come quello di un politico che rappresenta soprattutto «chi ce l’ha fatta».

Lo stesso Mahjoubi è del resto sì figlio di immigrati, ma ha iniziato fin da ragazzo a fondare, e con successo, una start-up dietro l’altra.

Così, anche se al primo turno delle legislative la République en Marche ha fatto il pieno di voti, ovunque e anche in periferia, con la particolarità che qui al secondo posto c’è però spesso La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, il risultato più visibile è venuto dalla crescita dell’astensione.

Nella Seine-Saint-Denis, «banlieue rouge» per antonomasia, ad esempio, il partito di Macron ha conquistato due terzi dei collegi, ma la partecipazione al voto è stata inferiore al 39%, dieci punti sotto il notevole record di astensione a livello nazionale.

Come ha sottolineato Jean-Yves Dormagen, politologo dell’Università di Montpellier che studia da tempo l’elettorato delle periferie, in queste zone sembra crescere una «collera sorda» e il sentimento di essere «sul bordo della rottura» con il sistema politico.

In questo senso, come rivelato dai dati impietosi del blog Lui Président di Le Monde, l’affermazione di Macron traduce probabilmente l’ampiezza della delusione per le promesse non mantenute dal quinquennato di François Hollande.

Immagine plastica di questa sfida mancata, il modo ben diverso in cui l’ormai ex presidente fu accolto in due storiche banlieue della capitale: tra gli applausi di una folla entusiasta nel 2012 a Aubervilliers, tra i fischi e la protezione ravvicinata della scorta in una zona limitrofa della Seine-Saint-Denis cinque anni più tardi.

Negativo, o pressoché nullo il bilancio di Hollande sul miglioramento delle strutture scolastiche, sui trasporti e sul lavoro, con la disoccupazione restata a livelli record. Cioè i nodi che sono tra le cause di quell’«apartheid territoriale, sociale e etnico» delle banlieue denunciato anni fa dal suo primo ministro, Manuel Valls.

Tirando le somme, l’unico risultato raggiunto dalla passata presidenza sarebbe la riduzione del 27% delle «violenze urbane». Un dato cui secondo l’Observatoire national de la politique de la ville non ha però corrisposto un miglioramento delle relazioni tra le forze dell’ordine e i banlieusard.

Non si tratta del solo ripetersi di piccoli e grandi soprusi, ma del generale clima di impunità che accompagna le bavures della polizia anche nei casi più gravi. Il giornale online Streetpress ha pubblicato un dossier che evidenzia come nel corso degli ultimi 10 anni ben 47 persone siano decedute, spesso nelle banlieue, in seguito ad un intervento «fuori misura» degli agenti, senza che nessuno dei responsabili abbia mai passato un giorno in prigione.

Morti provocate da un uso perlomeno disinvolto dei flash-ball, dei taser, delle tecniche di placcaggio al suolo dei sospetti o, più semplicemente, dal ricorso alle armi da fuoco anche in assenza di una condizione di reale pericolo.

Sono morti così, tra gli altri, solo negli ultimi 3 anni, Adama Traoré, 24 anni, placcato dagli agenti sul marciapiede fino al soffocamento; Babacar Guèye, sans-papier senegalese di 27 anni, ucciso da 5 colpi di pistola esplosi dagli agenti della Bac; o Rémi Fraisse, militante ecologista 21 enne, ammazzato da un lacrimogeno durante una manifestazione contro la diga di Sivens.

«In molti di questi casi – ha spiegato a Streetpress un magistrato che ha preferito restare anonimo -, gli agenti avrebbero potuto comportarsi diversamente. Ma, soprattutto in alcuni contesti sociali, va spesso a finire così».