«Lo scorso mese un terzo del mio Paese è finito sott’acqua. Le piogge più intense in un decennio ancora non ci hanno abbandonato. Più di 1,5 milioni di bangladesi sono sfollati; decine di migliaia di ettari di campi di riso sono andati distrutti. Milioni di compatrioti quest’anno avranno bisogno di aiuti alimentari» e soltanto a maggio altri 2,4 milioni di persone sono state trasferite a causa del ciclone Amphan.

Comincia così l’articolo pubblicato il 22 settembre sul Guardian e firmato da Sheikh Hasina, prima ministro del Bangladesh e leader del partito-Lega Awami. Sheikh Hasina è emblema di quell’autoritarismo che non contempla opposizione e si fa violenza di Stato, giustificato con la crescita del Pil, ma sul fronte delle politiche di adattamento e resilienza ai cambiamenti climatici sa il fatto suo: il Bangladesh è tra i Paesi più vulnerabili. Ogni anno viene inondato tra il 30 e il 50% del territorio; la media globale dell’innalzamento del livello del mare è di 3,2 millimetri l’anno, ma in Bangladesh in alcune zone arriva fino a 8 millimetri.

SECONDO I DATI del Bangladesh Centre for Advanced Studies di Dacca «l’innalzamento di un metro del livello del mare avrà ripercussioni sul 17% del territorio nazionale». Un problema che riguarda 22 milioni di persone su 170.
Le autorità ci lavorano da anni. La risposta istituzionale è raccolta nel Bangladesh Climate Change Strategy and Action Plan, circa 100 milioni di dollari ogni anno. Passa dal rafforzamento delle aree costiere piantando foreste di mangrovie alla costruzione di migliaia di rifugi anti-ciclone all’adozione di colture più resilienti.

Nel 1970, un ciclone ha provocato 300 mila vittime, 100 mila nel 1991. Nel marzo 2009 il ciclone Aila ha provocato 100 mila sfollati e circa 200 mila tra India e Bangladesh, nel delta bengalese, dove lo scorso maggio il ciclone Amphan ha provocato circa 120 vittime.

SHEIKH HASINA NON LO DICE esplicitamente, ma il punto è questo: l’Occidente, i Paesi più industrializzati e maggiormente responsabili delle emissioni nocive devono andare a scuola dal Sud del mondo. Londra deve imparare da Dacca. Quello della prima ministro bangladese – che presiede il Climate Vulnerable Forum, gruppo di 48 Paesi che più soffrono la crisi climatica – «non è un pianto per chiedere aiuto. È un’allerta». «Perché mentre altri Paesi sono meno esposti alla crisi climatica, non potranno sfuggire a lungo alla sua forza distruttiva». È questione di tempo.

E il Bangladesh può insegnarci qualcosa. Il perché lo spiega Amitav Ghosh ne La grande cecità. Il cambiamento climatico «ha rovesciato l’ordine temporale della modernità: quanti si trovano alle periferie ora sono i primi a sperimentare ciò che ci attende tutti; sono loro a confrontarsi più direttamente con quella natura che Thoreau definiva “vasta, titanica, disumana”».