Il caso del Bangladesh, che è ancora uno dei Paesi più poveri dell’Asia meridionale, mette in guardia sul fatto che le rimesse da sole possano risolvere i problemi di sviluppo, almeno a vedere l’analisi della Banca Mondiale dell’aprile scorso. Dal 2000 al 2016 il Paese ha conosciuto una fase di riduzione della povertà, anche se non accompagnato da una riduzione delle diseguaglianze.

In quel periodo una massa di popolazione rurale si è inurbata partecipando in città allo sviluppo di un’economia semi informale trainata dalle manifatture di indumenti. I laboratori creati con investimenti insufficienti sono stati in gran parte finanziati dalle rimesse dei bengalesi migrati all’estero e si sono indirizzati verso i mercati esteri, specialmente verso il mercato europeo. Nel 2010 i miglioramenti economici hanno interessato le aree rurali ma nel frattempo è rallentata la creazione di posti di lavoro «familiari» – a salari da fame – nell’industria manufatturiera, che nei successivi sei anni è crollata del 37%. Crollato nel frattempo anche l’ammontare delle rimesse dai Paesi del Golfo, dove è adottata una regolamentazione dei flussi di denaro anti riciclaggio e una politica di restringimento dell’immigrazione.

Ora le rimesse sono tornate a crescere del 17% (in Italia la comunità dei migranti dal Bangladesh è tra quelle che manda più soldi a casa, pari a 184 milioni di euro solo nel secondo trimestre di quest’anno) e anche l’export di vestiti nel 2017 è tornato a salire del 12% ma il Paese, che resta con strutture di infrastrutture e di protezione sociale fragilissime, ha subito anche un’alluvione devastante e la migrazione forzata di un milione di rohingya. E i 3,3 milioni di bengalesi inurbati rischiano di ricadere nella povertà estrema e hanno ripreso a emigrare in massa.