Nello spicchio sinistro della piazza del Campidoglio, accanto alla statua del Marc’Aurelio e sulle scale in marmo dei portici, abbiamo ascoltato «la nostra patria è il mondo intero». Era il coro del circolo Gianni Bosio, storica associazione romana di cultura orale e musicale delle classi non egemoni e del mondo popolare, oggi ospitata nel Rialto Sant’Ambrogio al ghetto da cui la Corte dei conti pretende un arretrato di un milione e mezzo di euro. Dopo uno sgombero, la sede del comitato nazionale per l’acqua pubblica, quello che ha vinto il referendum del 2011, è stata rioccupata insieme agli attivisti della rete «Decide Roma».

LA CIFRA, tanto stellare quanto irrealistica, è il prodotto di un’allucinazione amministrativo-giuridica che tiene in ostaggio la Capitale da almeno due anni. La Corte dei conti pretende da oltre 800 associazioni, centri sociali e interculturali, teatri e onlus di ogni tipo canoni di affitto commerciali, e non più sociali, come stabilito in molti casi da concessioni comunali. E in più chiede risarcimenti che vanno dai 6 milioni del centro sociale La Torre ai 116.438 euro del «Grande cocomero», l’associazione nata oltre 20 anni fa da un’idea di Marco Lombardo Radice, neuropsichiatra esperto nella cura dei disturbi psichici dei minori, che ha ispirato l’omonimo film di Francesca Archibugi.

*** Scuola popolare di musica di Testaccio. Intervista a Giovanna Marini: “Ci sgombereranno solo con la forza”

MOLTE DI QUESTE REALTÀ rientravano nella delibera 26, ottenuta dai centri sociali nel 1995 grazie a un duro conflitto con la giunta Rutelli. Nei vent’anni successivi le amministrazioni non hanno mai portato a termine l’iter burocratico che avrebbero dovuto concludere entro 120 giorni dall’assegnazione provvisoria. In questa situazione confusa si è abbattuta la decisione della Corte dei Conti che impone di monetizzare a prezzi di mercato il valore sociale del patrimonio immobiliare dato in concessione alle organizzazioni non profit. Non solo: prima la giunta Marino – con la sciagurata e scomposta delibera 140 – oggi la giunta Raggi con un’altra delibera (la 19) – hanno deciso di rimettere a bando le stesse strutture. Tutte le strutture che sono state trasformate in «morose» a causa dell’imperizia dell’amministrazione e del corto-circuito provocato dalla Corte dei conti, non potranno partecipare ai bandi.

Un paradosso diabolico, frutto della subalternità della politica – e oggi del Movimento 5 stelle – ad una malintesa ideologia della «legalità», che produrrà l’esito catastrofico di annientare realtà uniche dell’intercultura come il Celio Azzurro, istituzioni musicali internazionali come la scuola popolare di musica di Testaccio o storie singolari, e decisive, l’associazione culturale Torraccia di San Basilio. Ventuno anni ad affitto concordato in un casale autorecuperato a pochi passi dal raccordo anulare dove si sono formate 4 mila persone. All’associazione sono stati chiesti 100 mila euro. Il rifiuto di questa truffa legalizzata si è data ieri in una piazza commovente. La parola d’ordine della manifestazione era «bando al bando». Il bando impone la concorrenza, mentre questi mondi fioriscono nella cooperazione sociale, nella solidarietà e nel mutualismo.

Principi ribaditi in un incontro con l’assessore al bilancio Andrea Mazzillo, il vice-sindato Luca Bergamo e mezza giunta in cui Decide Roma ha chiesto la moratoria su sfratti e sgomberi in corso. Richiesta che la giunta ritiene «impossibile». Consenso invece su un percorso «partecipativo» alla scrittura del nuovo regolamento sugli affidamenti degli spazi sul metodo dei beni comuni urbani applicato in 100 città italiane, e in particolare a Napoli. Richieste alle quali la sindaca Raggi si è fino ad oggi sottratta. Dopo l’incontro Decide Roma ha ottenuto che i debiti pregressi non saranno scaricati sulle associazioni. L’indirizzo politico sembra mutato. Sabato 18 marzo è previsto un incontro dove gli impegni saranno verificati.

AL CAMPIDOGLIO c’era un’intensità emotiva, una tensione politica soggettiva, che si ritrova da tempo nelle piazze italiane. L’abbiamo sentita scorrere nei cortei delle donne il 26 novembre e l’8 marzo scorso. Ieri si è espressa in un desiderio di riappropriazione della politica: «La città siamo noi»; «Noi siamo la politica» hanno detto in molti. Non è più la concessione di una delega, ma l’affermazione di una vita in comune ora a rischio.