Sempre benemeriti i volumi di «Tutte le poesie», e utili specie nel caso di poeti importanti nonostante la permanenza in una qualche marginalità, rispetto anche alla consueta marginalità della poesia di secondo Novecento (a scanso di equivoci: non è un bene e non è un male: è la constatazione di un fatto), se convocano con giusto appello, e radunano, poesie uscite in sedi sparse, poco raggiungibili perfino per il lettore tempestivo. Anche per questo è esemplare l’Oscar «Baobab» Tutte le poesie di Fernando Bandini (Mondadori, pp. LIV-719, € 28,00), curato con scienza e passione da Rodolfo Zucco, introdotto da Gian Luigi Beccaria e dallo stesso Zucco, con una Vita di Fernando Bandini di Lorenzo Renzi e con una bibliografia selezionata da Stefano Tonon. Si tratta perfino di qualcosa di più di quanto annunciato dal titolo, perché nel volume si trova anche l’opera di traduzione, che è poesia sua, di Bandini.
Ha ragione infatti il curatore a ritenere un po’ oziosa la questione delle tre lingue del poeta, rivendicando «l’unità di intenti che sta alla base della sua esperienza poetica». Bandini ha scritto, oltre che in italiano, in veneto e in latino (l’idea di dire in latino gli nacque verso la metà degli anni cinquanta, come testimonia Scrivere poesia in latino oggi), ma da lingue che non ci sono più ha anche tradotto, come nel caso di Arnaut Daniel. Su questo sia consentita quella che solo apparentemente potrà parere una divagazione. Chi ha conosciuto la figura e l’opera di Pietro Tripodo, il poeta romano che avrebbe quest’anno settanta anni ma che invece se ne andò a cinquantuno, sa come intendere le diverse lingue in un’unica poesia. Oltre che lottare con Arnaut, Tripodo tradusse in latino (Sepulchra maris) Valéry, Le cimétiere marin, e si arrovellava su Ausonio. Bandini, oltre che lottare con Arnaut, tradusse in latino, per esempio (Nimbus, Anguilla) Montale (La bufera, L’anguilla) e dal latino Ausonio (ma anche Virgilio e Orazio). In casi simili non si tratta di poeti che traducono, ma di poeti che trasportano se stessi in altre lingue e lì si incontrano, in un processo che contempla insieme la babele delle lingue e l’universale della poesia.
Si condivide la confessione di Massimo Raffaeli (e deve trattarsi forse di una questione generazionale) quando, 2010, accompagnando con una nota la pubblicazione di una plaquette di Bandini, Quattordici poesie, scriveva: «Ho scoperto tardi la poesia di Fernando Bandini ed altrettanto tardi ho dovuto ammettere che il mio personale diagramma del secondo Novecento italiano difettava, clamorosamente, di una presenza non solo importante ma, alla lettera, necessaria». I motivi sono molteplici e c’è, come sempre, anche qualcosa di casuale. Nato nel 1931, scomparso nel 2013, Bandini, per stare a quanto testimoniato da Raffaeli, si colloca in un punto difficile del diagramma del secondo Novecento al di là dei diagrammi personali, arrivato alla maturità di poeta proprio negli anni di maggior conflitto poetico in Italia, al punto che i suoi tratti di stile maggiormente avanzati non per solo gioco ottico poterono parere – diciamo così, con mille precauzioni – guardare ad altro che alle lance spianate. Però il poeta si era fatto presente, per esempio, dal suo commento ai Canti leopardiani, di una acuminatezza coperta dalla misura: un sapere solo dissimulato, come si evidenziava dalla lucidità della messa in pagina. La poesia di Bandini somiglia a quel suo commento, tanto pacato da sottrarsi volutamente a se stesso: stare alla necessità, comunicare a un pubblico – per quanto esiguo possa essere – per sopravvivere, come osserva Beccaria, che rammenta anche come il poeta «abbia indicato in Zanzotto l’autentica avanguardia del secondo Novecento».
A tal proposito, tra le non poche novità del volume, sta la prima pubblicazione dell’Epistula ad Andream Zanzotto poetam, una vera e propria ars poetica, secondo Giovanni Pellizzari, che l’ha ritrovata fra le carte del fondo Bandini dell’accademia Olimpica di Vicenza: «E come mi vedi perdermi dietro fiori perduti / così un istinto di morte ti parrà il mio latino. / Ma io, in queste ombre fitte di secoli, con che voluttà mi ci immergo / in traccia di parole, come baluginio di lucciole erranti nel buio: / o stelle, sperse nel tempo, per gli abissi del cielo».
Memoria del futuro (1969), che raccoglieva anche versi precedenti, e poi La mantide e la città (’79), Santi di Dicembre (’94) Meridiano di Greenwich (’98), Dietro i cancelli e altrove (2007), le sue raccolte principali, mostrano – nella costante della perizia metrica, che in verità dovette essere per Bandini qualcosa di molto prossimo alla passione, e non solo per un dire esatto, ma quale vera e propria esigenza di rigore e di moralità – un percorso la cui avventurosità è volutamente tenuta sottotono, di modo che l’energia possa sprigionarsi senza troppa appariscenza, partendo da un minimo di decenza quotidiana, come esemplarmente in Fantasma, una breve poesia di Santi di Dicembre: «Le dissi come allora: “Potresti essere mia figlia”. / E lei: “No, non andartene, aspetta! Solo un momento! / Prova a toccarmi il cuore”… Ma non un cuore / sentii dentro il suo petto: / solo il rombo d’un vento / notturno, il cigolio della lanterna / appesa al parapetto / del ponte che il treno in quell’anno remoto / rallentando sfiorava. // Ti dico addio, fantasma della mia notte cava, / qui dai binari morti tra Noventa ed Ostiglia». Dove si potrà cogliere forse il motivo (quel vento e non solo) per cui Sereni volle Memoria del futuro nello «Specchio», e il modo in cui un «fanciullino» pareva a Zanzotto annidarsi in Bandini. O nella stessa raccolta, molto dice il confronto tra Negozi di uccelli («Quando mi trovo in città sconosciute / cerco negozi d’uccelli: / l’ho fatto a Ginevra a Londra / a New York ad Hong-Kong sempre la stessa alata confraternita / di ogni parte del mondo / in gabbie made in Japan») e «Invidio chi possiede grandi patrie / (Chlebnikov e la Moore) / e il verso-deltaplano che si libra / su mille miglia di foresta», in una sorta di dialettica tra Heimat e dislocazione, tra strenua precisione e spaesamento (Zanzotto dalla Heimat al mondo era il titolo sintomatico e simpatetico dell’introduzione al Meridiano del poeta di La beltà): come sinteticamente in L’ultimo aereo: «La nostra vita non è più nelle trame / tessute intorno a casa o poche vie più in là: / un ventaglio di aneddoti che l’aria / schiudeva tra le dita, depositava adagio / negli orti rosseggianti di escallònia / dove un giorno attecchiva una piccola storia. // Una nube strappata al cielo dal vento / lambisce coi suoi orli sfilacciati / vecchie periferie dove sbocciano fragole / di cui sono golosi solo i rospi. / Sappiamo quello che accade – e accade / soltanto altrove. // L’ultimo aereo che ha sorvolato le case / è stato il Macchi della nostra infanzia, / ma ne abbiamo sentito lo schianto / dietro le colline molti anni fa» (qui si coglie il dialogo di Bandini con i dettagli gnomici di Giudici).
Rimanere strenuamente attaccati alle cose, per quanto i loro nomi fuggano: si ricordino Lapidi per gli uccelli, XIII («Ponendo lapidi / dove una volta erano voli e gridi») e Amnesia in La mantide: «Giorno per giorno qualche nome si eclissa / dalla mia lingua e dalla mia memoria, / usuali parole come sedia bottiglia. / Oh, trafelate corse per riprenderne / possesso! Annaspo naufrago / in un mondo che sempre più smarrisce / i suoi eoni, balbetto / come Mosè presso il roveto ardente Come mi muoverò, poeta senza / gli amati nomi succo delle cose, / tra i buchi d’un saccheggiato universo?» (chissà se può non illegittimamente affacciarsi qui «In the great serenade of things / am I the most canceled passage?» il Gregory Corso antologizzato nel 1964 da Fernanda Pivano per la Poesia degli ultimi americani).