Le bandiere nere dello Stato Islamico sventolano a Kobane. La città curda siriana, sotto assedio jihadista da due settimane, è sul punto di cadere. L’annuncio, drammatico, lo danno i miliziani curdi che difendono la comunità al confine con la Turchia. Alla Cnn Alan Minbic, capo dell’Unità per la Protezione del Popolo (Ypg), ha raccontato dell’ingresso degli islamisti nella zona sud ovest dopo un’offensiva pesantissima: nella mattinata di ieri l’Isis ha lanciato 60 missili e si è aperto lo strada verso il centro cittadino, ancora presidiato dai curdi.

«Ormai tra noi e i jihadisti c’è meno di un chilometro – ha detto al telefono con la Reuters un altro leader delle Ypg, al-Sheikh – Ci troviamo in un’area piccola e assediata. Non ci sono arrivati rinforzi e il confine [con la Turchia] è chiuso. Cosa mi aspetto? Uccisioni, massacri, distruzione». Durissimi gli scontri in corso, ma la forza sul campo è impari: alle sofisticate armi in mano ai jihadisti, i miliziani curdi rispondono con strumenti poco efficaci e si affidano per ora ai cecchini, in attesa dello scontro finale, casa per casa. Testimoni riportano di esplosioni, colpi di mortaio e della presenza di molti civili: i quasi 200mila profughi che nei giorni scorsi hanno raggiunto il confine turco provenivano per lo più dai villaggi intorno Kobane, già occupati dall’Isis. Nella città restano molte famiglie, intrappolate negli scontri o impegnate a difendere la comunità.

La presa di Kobane, a pochi chilometri dalla Turchia, potrebbe accelerare l’intervento militare di Ankara in Siria, dopo il voto favorevole del parlamento. Due giorni fa il ministro della Difesa turco aveva frenato gli impeti bellicosi del presidente Erdogan, ma l’eventuale caduta della città curda in mano all’Isis sarebbe la migliore delle giustificazioni all’invio di truppe di terra.

Ieri il premier Davutoglu ha detto che il paese farà tutto il possibile per impedire la presa della città curda e, secondo la stampa turca, Ankara ha dispiegato l’esercito alla frontiera, allertato l’aviazione e inviato equipaggiamento militare. Sembra trovare conferma quanto previsto dal leader del Pkk, Abdullah Ocalan, che giovedì aveva definito l’assedio di Kobane «anormale».

Davutoglu, su questo punto, è stato chiaro: l’obiettivo di Ankara non è soltanto quello di annientare lo Stato Islamico, ma soprattutto quello di distruggere il governo di Assad. «Sapete cosa succederà senza una no-fly zone? Le postazioni Isis saranno bombardate e il regime siriano, che ha commesso tutti quei massacri, ritenendosi legittimato, bombarderà Aleppo».

Immediata arriva la reazione del governo di Damasco, da quattro anni impegnato in un duro braccio di ferro con Ankara: un intervento militare turco, ha detto il vice ministro degli Esteri Maqdad, sarà considerato «un atto di aggressione contro uno Stato membro delle Nazioni Unite». Ad impensierire Assad in questo momento è però l’effetto che la strage jihadista di bambini ad Homs ha provocato sulla popolazione della città: giovedì manifestanti furiosi sono scesi in strada contro il governo considerato incapace di frenare le violenze, una protesta senza precedenti messa in atto dalla comunità alawita (di cui la famiglia Assad è parte) da sempre pro-governativa.

All’avanzata islamista, intanto, la coalizione reagisce con l’intensificazione dei raid, ad oggi dimostratisi inefficaci a frenare le milizie di al-Baghdadi, seppure la Casa Bianca si mostri ottimista per la nuova partecipazione delle tribù sunnite a fianco di peshmerga ed esercito iracheno. Ieri nuovi bombardamenti hanno colpito postazioni dell’Isis a nord della Siria, tra le province di Aleppo, Raqqa e Deir az-Zor, e in Iraq nella zona di Kirkuk.

Tra le file curde a Kobane, però, c’è anche chi critica le bombe Usa su Raqqa che hanno avuto l’effetto di spingere un numero ingente di islamisti verso nord, verso la frontiera turca. Allo stesso tempo migliorano le capacità militari dell’Isis: ieri i jihadisti hanno abbattuto con un lancia missili un elicottero dell’aviazione irachena, tra le città di Beiji e al-Senniyah.

Scende in campo anche l’Australia, che da agosto preme per intervenire. Ieri il primo ministro australiano Tony Abbott ha annunciato il via libera del Consiglio dei Ministri alla partecipazione dell’aviazione militare ai raid in Iraq: «Si tratta di un’operazione di combattimento, ma è essenzialmente una missione umanitaria per proteggere il popolo iracheno e anche quello australiano dall’ira omicida dell’Isis», ha detto Abbott.

Un’altra voce che si unisce al coro: la distruzione di al-Baghdadi è necessaria alla sicurezza del mondo intero. Diversa l’opinione di chi quella minaccia la sta vivendo sulla propria pelle e che vede nell’interesse globale un modo per ridisegnare la mappa mediorientale.