Il giorno dopo l’attentato più sanguinoso dell’Egitto contemporaneo la procura generale dà i numeri della strage: 305 morti, di cui 27 bambini, 128 feriti, 25-30 miliziani coinvolti (15 uccisi in raid dell’esercito). Hanno circondato la moschea sufi di Bir al-Abd in Sinai, spiega il procuratore Sadeq, e aperto il fuoco dalla porta e dalle 12 finestre.

Dà qualche numero anche il governo: il presidente al-Sisi, dopo la riunione di emergenza di venerdì, ha promesso 50mila lire egiziane (9.500 euro) alle famiglie di ogni vittima e 50mila (2.300 euro) ad ogni ferito.

Per tutto il giorno 50 ambulanze hanno fatto la spola dalla moschea agli ospedali, mentre il numero dei feriti si assottigliava e lievitava quello dei cadaveri. I funerali si sono già tenuti, rapidamente, con i corpi senza vita avvolti nel tradizionale lenzuolo bianco musulmano.

E sorgono già i primi dubbi sulla possibilità di evitare il massacro: secondo l’agenzia indipendente Mada Masr, che cita una fonte anonima, una settimana fa miliziani legati allo Stato Islamico avevano ordinato ai residenti del villaggio di interrompere le celebrazioni nella moschea sufi.

Ci si aspettava un attacco, se lo aspettavano le autorità locali tanto da chiudere le strade intorno al luogo di preghiera. Eppure cinque 4×4 e trenta uomini sono riusciti ad arrivare senza alcuna difficoltà, armati fino ai denti, alla moschea Al Rawdah.

A 24 ore dall’attacco manca, però, ancora una firma. Hasm (milizia di recente formazione, per il governo affiliata ai Fratelli Musulmani che smentiscono) e i qaedisti di Jund al-Islam si sono affrettati a condannare l’attentato. Resta lo Stato Islamico, la cui espressione locale è dal novembre del 2014 la «Provincia del Sinai», ex Ansar Beit al Maqdis. I sopravvissuti raccontano di bandiere nere, i tristemente noti vessilli del «califfato», sventolare tra le raffiche di mitra.

Il sospetto si concretizza alla luce della partecipazione attiva della tribù Sawarka – di religione sufi, residente nella zona di Bir al-Abd, Arish e Sheikh Zuawayed – alla campagna anti-terrorismo lanciata dal Cairo tre anni fa: nel maggio scorso i capi tribù Sawarka hanno formalmente aderito, affiancando con uomini e armi l’esercito regolare e diventando, più di prima, target islamista.

Il principale nemico – nonostante la presenza jihadista di diversa affiliazione sia variegata e radicata fin dagli anni ’70 – è l’Isis, la cui «filiale» in Sinai conterebbe 1.500 miliziani, per lo più provenienti da Libia, Siria e Iraq.

Pochi i locali, sebbene la leadership islamista – nell’ottica di creare un suo «emirato» in stile Mosul e Raqqa – abbia tentato di accattivarsi le simpatie dei beduini mostrandosi come alternativa alla marginalizzazione economica figlia delle politiche della capitale. Ma le punizioni e gli omicidi, l’imposizione di una medievale interpretazione della Shari’a e soprattutto lo scontro con i capi tribù ha impedito un reclutamento di ampio raggio.

Chi si unisce lo fa spesso per disperazione, perché vittima di disoccupazione strutturale, abusi delle forze di sicurezza, sfollamento. È il caso di Rafah, oggetto dal 2014 di demolizioni di case per far spazio a una zona cuscinetto anti-Hamas lungo il confine con Gaza: 2.300 abitazioni distrutte nel 2014 e altre 2mila ad aprile di quest’anno, nell’ambito dell’«Operazione Diritto del Martire» che ha lasciato senza casa 3.400 famiglie. Terreno fertile alla radicalizzazione.

La stessa moschea Al Rawdah è stata luogo di accoglienza per le famiglie in fuga da Rafah e per quelle fuggite da Sheikh Zuwayed, uno degli epicentri dello scontro tra islamisti e forze armate. Ma non arrivano solo sfollati: ci sono anche i miliziani che dall’entroterra e dall’est si stanno spingendo verso la costa occidentale.

L’attacco di venerdì non ha dunque colpito solo gli «apostati» sufi, ha colpito i Sawarka, colpevoli agli occhi islamisti di collaborazionismo con il governo, colpa condivida con altre tribù locali – come i Remailat e i rivali Tarabin, destinatari di importanti appalti statali per la vendita di materiali di costruzione – che da decenni hanno rapporti con Il Cairo.

Sia Sawarka che Tarabin nei proclami di adesione alla guerra al terrore hanno citato la minaccia del «terrorismo» e «la violazione dei diritti umani e delle tradizioni dell’Islam».

Ma ci sono anche gli interessi economici: la presenza jihadista, la destabilizzazione, gli scontri con l’esercito e lo stato di emergenza danneggiano i traffici tribali, dagli appalti per la produzione del cemento al contrabbando di armi e droga. Fino alla tratta di esseri umani.