L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha pubblicato i risultati di uno studio dettagliato sui bandi dell’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) che dal 2017 a oggi hanno stanziato 6 milioni di euro per sostenere l’intervento umanitario delle Ong nei centri libici. «Inevitabile che i progetti sviluppati in un simile contesto sfocino nella complicità con le milizie», dice Salvatore Fachile, avvocato di Asgi. Cinque le organizzazioni capofila: Emergenza Sorrisi, Helpcode, Cefa, Cesvi e Terre des Hommes Italia. Il 27 luglio sono state invitate dall’associazione di giuristi a discutere il dossier in una tavola rotonda telematica.

Il parlamento ha deciso di continuare a finanziare la Guardia costiera libica. Verrebbe da pensare che i fondi per l’intervento umanitario nei centri di detenzione funzionino come una sorta di contraltare.

L’oggetto del dibattito che vogliamo incrementare è proprio questo: che il finanziamento umanitario abbia come primo obiettivo creare un bilanciamento retorico all’accordo con cui finanziamo direttamente una guardia costiera composta da soggetti che si sono macchiati di crimini di guerra. Questo tema prescinde dal dolo o dalla volontà di chi partecipa al bando. È un fatto obiettivo.

Nel 2017 una larga parte del mondo delle Ong parlò di «bando della vergogna» temendo che l’intervento umanitario fosse strumentalizzato per sostenere il contrasto dei flussi. Oltre l’aspetto retorico, cosa emerge dalla vostra analisi?

Questo tema è più problematico e delicato. Dall’analisi delle attività programmate e finanziate viene fuori che lo stato italiano con questo intervento di tipo umanitario non vuole neanche cercare di migliorare l’approccio delle milizie, ma semplicemente far sì che ci sia un flusso di denaro verso la Libia. Un flusso soggetto inevitabilmente a un controllo molto limitato. Per come sono stati strutturati i fondi emerge il sospetto che sostengano economicamente soggetti che pongono in essere crimini contro l’umanità.

Come?

A prescindere dalla volontà delle Ong che realizzano i progetti, basta un’analisi dei meccanismi che governano la Libia. Da parte di chi implementa un’operazione umanitaria non può esserci controllo sui reali destinatari di operazioni di distribuzione dei beni o interventi sulle strutture dei centri di detenzione. In quel contesto è impossibile controllare che l’effettivo destinatario finale sia il cittadino straniero imprigionato. In grandissima parte non può che essere chi governa il territorio.

I bandi presentano problemi procedurali o di sostanza?

Poteva esserci un tentativo di strutturarli in modo da provare a produrre un’incidenza sistemica maggiore. Ma non è stato fatto. Realisticamente bisogna anche dire che seppur si fosse perseguito quell’obiettivo non si sarebbe comunque ottenuto. Quei luoghi non sono governati da soggetti influenzabili. Le milizie libiche non adottano politiche democratiche che tengono in conto il governo italiano o l’Europa, ma perseguono le loro priorità militari. Quindi è inimmaginabile pensare a un intervento umanitario efficace in un contesto di detenzione come i centri libici. Inevitabilmente si sfocia in una forma di complicità.