Apriamo una parentesi. Bande à part è il settimo lungometraggio di Godard. È uscito in sala nel 1964. Ci ritorna in questi giorni in una versione restaurata. Proviamo allora a parlarne come se uscisse per la prima volta. Come se non fosse uno dei film più noti della cinefilia. Chiusa la parentesi.
Il film che esce oggi è diverso dal solito. Tanto per cominciare è in bianco e nero. Poi è una specie di film di genere.

Dalle prime inquadrature si direbbe un dramma. C’è qualche scorcio su una Parigi grigia e brumosa. Nulla a che vedere con la ville lumière, i grands boulevards, gli Champs Élysées… Piuttosto le chiuse e i canali che si intravedono al limite tra la città e la valle della Marne. Una musica da boulevard le accompagna. Entriamo in un’automobile (una Simca decappotabile) con due strani tipi e la musica cessa. Il tono cambia, è più asciutto, rapido, realista.

Alla guida c’è Frank (Sami Frey), il quale porta un cappello tipo borsalino. Accanto a lui c’è Arthur (Claude Brasseur), meno chic, ma dall’aria più decisa. Forse siamo in un film poliziesco. Ecco sopraggiungere la classica voce off tipica del genere ma che invece di raccontare come sono andate le cose ricama frasi da libro stampato sul sole di Austerlitz che sorge alla Bastiglia.
Bande à part è, letteralmente, una pellicola a parte: non appartiene a nessun genere e ruba un po’ a tutti i generi. Ora Godard, c’è da riconoscerlo, in quanto ladro è più astuto dei suoi due soliti ignoti. Al 26esimo minuto mette in bocca alla propria eroina una citazione di Eliot che suona così: tutto ciò che è nuovo fa automaticamente parte della tradizione.

Riapriamo una parentesi: l’eroina è Anna Karina. Questo è il suo primo film con Godard. Senza dubbio il più bello della sua carriera. Chiusa parentesi. Basta rifarsi alla tradizione per innovare? La scena della corsa dei tre complici attraverso il Louvre è certo molto bella. Una specie di inno alla leggerezza e alla libertà. Ma Bertolucci l’aveva già fatta nel 2007. Così come la lunga sequenza nel caffè. I tre non sanno cosa dirsi. Uno è sempre di troppo.

Allora si mettono a parlare del silenzio. E poi fanno un minuto di silenzio. Infine, come se nulla fosse, si mettono a ballare. È chiaro che Godard qui cita la famosa sequenza con Uma Thurman e John Travolta nel Jack Rabbit Slim. Ma che rubi a Bertolucci o a Tarantino, Godard sembra sempre innovare perché nessuno osa la sua semplicità, il suo fare un cinema alla lettera.
Che vuol dire? Esempio: film di ladri? Si ruba. Agli altri (a Nicholas Ray ovviamente), ma soprattutto a se stesso. Godard fa sempre lo stesso film. Guardando questo in filigrana appaiono tutti i suoi precedenti (qui l’articolo ruba da La prochaine polaire, «Cahiers du cinéma» N.159). Sia in Addio al Linguaggio che in Film Socialismo, per citarne due, c’è sempre una coppia, un altro, un appartamento, un viaggio, dei soldi, una crociera (qui verso l’America del Sud).

Sempre manca l’intrigo. Ora, Bande à part si potrebbe (quasi) raccontare. È (quasi) un film «normale». C’è un inizio. C’è una fine. E tra l’uno e l’altra si potrebbe persino dire che c’è un mistero. Ma è un mistero mistero alla Godard, un mistero alla lettera: dove sono i soldi? Il mistero principale è quello dell’illusione. Fino a che punto si allertare lo spettatore?
Godard si diverte a verificare il limite, ora strizzandoci l’occhio ora facendoci la linguaccia. Anche quest’articolo, nel suo piccolo, ci prova. Ma al cinema la linguaccia viene meglio. Lo spettatore è disposto a tutto purché la finzione continui. È il motivo per cui il genere, con le sue finzioni, può sfidare le norme sociali, la morale e il buon senso (e vincere: lo spettatore sarà sempre disposto ad oltrepassarle, tutto purché il film vada avanti).

Va detto che nel 1964 (torniamo alla realtà: Bande à part esce in Italia il 12 febbraio in versione restaurata) certi cineasti ne avevano piene le tasche di questo giochetto. Kubrick, nel Dottor Stranamore, si diverte a portare il genere al limite dell’assurdo, dimostrando che il pubblico è talmente assuefatto dalla finzione dal desiderare che la bomba esploda. Godard fa il contrario. Non vi da nulla: né un vaudeville, né un film drammatico, né una commedia. È un film che non guarda da nessuna parte. Ma lo fa con un telescopio.