In quindici anni di missioni squattrinate nell’Europa orientale ho imparato ad apprezzare il pane della rivoluzione. Intendiamoci: non esiste una dieta della rivolta, ma certi piatti mi ricordano precise crisi politiche. Come quella esplosa in Ucraina nel 2004, la prima protesta colorata nella storia del paese e dell’Europa.

Le immagini trasmesse da Kiev avevano avuto un grande impatti su tutti i paesi dell’est. A Varsavia gli studenti protestavano ogni giorno di fronte ai cancelli dell’ambasciata russa, che si trova sulla strada Ujadowskie, vicino ai giardini Łazienki, nella parte più ordinata della città.

Decine e decine di poliziotti in uniforme da grandi manovre coprivano i marciapiede lungo l’intero viale, quindi non c’era alcuna possibilità di innervosire davvero i diplomatici russi: se mai si qualcuno di fosse affacciato alle finestre dall’edificio dell’ambasciata, avrebbero visto a malapena un gruppetto di ventenni con le maschere di Putin. Ma quel rapido passaggio sulla strada Ujadowskie equivaleva per molti a un’azione di sabotaggio dietro le linee nemiche, da raccontare poi seduti al tavolo di un bar mlechny, le tavole calde in cui studenti, pensionati e operai consumano ancora oggi la cena, attorno alle sei del pomeriggio.

L’ultimo rifugio del socialismo reale. Per gli stranieri il primo scoglio è la lingua, perché non esiste un menù da consultare con calma: il nome dei piatti è scritto su un tabellone sopra la cassa e bisogna essere svelti a decidere prima che gli altri clienti comincino a protestare.
Per questo la scelta ricade all’inizio sempre sulle stesse pietanze, quelle con un suono più familiare. Omlet (frittata semplice). Zupy pomidorowa (zuppa al pomodoro). Zupy kalafiorowa (zuppa di cavolo). La carne entra nell’alimentazione solo quando la familiarità con il polacco diventa più solida, e l’ingresso coincide di solito con la scoperta del Kotlet shabowy (una fettina di manzo impanata), oppure del Stek wiep z cebula (bistecca con cipolla e verdure in salamoia). Tutto, naturalmente, accompagnato da kompot, una bevanda dolciastra a base di frutta. E dalla smetana, panna acida da aggiungere su ogni piatto. Purtroppo quell’anno ho lasciato Varsavia prima che il controllo sul polacco mi permettesse di ordinare la kaszanka, una salsiccia di sangue, fegato e interiora di maiale. La rivoluzione ucraina è andata avanti per molto e così pure la mia personale avventura politica e culinaria.

Nel 2010, dopo avere attraversato a piedi il confine fra la Polonia e l’Ucraina, ho trovato ospitalità presso una famiglia di Leopoli. Ricordo di avere cercato per un intero pomeriggio di convincerli a parlare della situazione nel paese alla vigilia delle presidenziali. A quel punto Yulia Timoshenko era impegnata in una lunga campagna contro Viktor Yanukovich, che avrebbe vinto le elezioni poche settimane più tardi. Ma alle mie domande, ai miei pensieri lasciati a metà fra un brindisi e l’altro, seguiva soltanto qualche risata. Sinché la moglie del capofamiglia, una donna di nome Maria che aveva insegnato all’Università e conosceva qualche parola di inglese, mi ha invitato in cucina per preparare il borshch. Chi è stato almeno una volta nelle terre aperte fra il fiume Oder e il Volga sa che si tratta di una zuppa molto sostanziosa e molto diffusa nell’Europa dell’est, al punto da essere considerata fra le pietanze nazionali in una decina di paesi.

Il particolare divertente è che non esiste una ricetta ufficiale per il borshch. Di questo abbiamo parlato quel pomeriggio con Maria, tagliando su una tavola di legno cipolle, patate e barbabietole, e spostando gli ingredienti in una grossa pentola assieme a carne di maiale. Almeno una volta all’anno, diceva Maria, tutte le famiglie si trovano sotto lo stesso tetto e tutte le donne si chiudono in cucina e cominciano a parlare del borshch. Il problema è che ognuna di loro ha una sua ricetta e questo porta a discussioni senza fine: c’è chi vuole bollire le barbabietole per ore, c’è chi taglia le patate a spicchi e chi le lascia intere, c’è chi mette una prugna sul fondo della pentola alla fine della cottura.

Ma quando le famiglie si siedono a tavola, la zuppa che esce dalla cucina è una soltanto. Il borshch «comes together», diceva Maria, cominciando a canticchiare la canzone dei Beatles. Non è stato semplicemente un corso accelerato di cucina sovietica. Credo sia stata la migliore lezione sulla politica ucraina che avessi mai potuto ricevere. A Kiev, nel 2014, è avvenuto il più violento cambio di potere al quale l’Europa abbia assistito dai tempi di Ceausescu in Romania. L’unico dettaglio che ha impedito all’ex presidente Yanukovich di finire come Ceausescu (ovvero giustiziato in una scuola di campagna) è stata la cattiva mira dei suoi avversari politici (l’auto sulla quale viaggiava da Kiev a Kharkiv è stata raggiunta dai colpi di un fucile automatico). Tutto questo è accaduto alla fine di febbraio. Per qualche strana ragione gli eventi più significativi nella storia dell’Ucraina accadono nei mesi invernali, nella stagione in cui le temperature suggerirebbero di passare al caldo la maggior parte del giorno.

Basterebbe questo per pensare che la lunga rivolta culminata con la fuga di Yanukovich sia stata prima di tutto un enorme esercizio di volontà collettiva. Uno sforzo sostenuto dallo spirito della nazione e dalle cucine da campo.

Quell’inverno il cibo non mancava affatto a Maidan Nezelazhnosti, lo distribuivano in abbondanza a chiunque entrasse negli accampamenti. Zuppe di verdure, the bollente, caffè nero con i biscotti: era difficile restare con le mani vuote una volta fra le tende. In quella piazza ho scoperto il migliore sistema al mondo per evitare il raffreddore. Dose giornaliera: una fetta di pane, una fetta di lardo e uno spicchio d’aglio. Tutto insieme, masticando bene, appena usciti in strada. Neppure una linea di febbre nonostante il freddo e la neve. La questione alimentare aveva un certo peso anche a Donetsk nella primavera successiva. Nel palazzo del governo occupato dai separatisti per il referendum sull’indipendenza del Donbass ho conosciuto un uomo sui 50 di nome Misha, al quale erano affidata le razioni per i paramilitari. Misha aveva passato buona parte della vita nelle ferrovie sovietiche e poi in quelle ucraine, e si era mostrato molto disponibile di fronte alle mie domande. Fra una questione e l’altra mi aveva anche confidato il suo cruccio più grande in quelle settimane al lavoro per la Nuova Russia. Non so mai che cosa preparare, mi aveva detto: qui tutti i soldati sono vegetariani, non mangiano carne, vogliono soltanto funghi.

Qualcuno penserà che il servizio nelle ferrovie sia un requisito discutibile quando si tratta di sfamare un esercito di ventenni in lotta per la libertà. Niente di più sbagliato: i treni russi offrono cibo meraviglioso. Pane fresco con burro e caviale, aringhe, sarde, insalate di piselli, piatti di formaggio, composizioni miste di salumi sconosciuti. L’unico problema della carrozza ristorante è l’orario di chiusura. Attorno alle undici di sera la responsabile del servizio ricorda frettolosamente ai viaggiatori che è il momento di tornare in cabina, e le richieste di proroga incrociano di solito lo sguardo fermo della donna post sovietica: niente da fare, il regolamento lo impedisce. In un paese in cui esistono tragitti lunghi due settimane, questa si può rivelare una seccatura. Per tutto, però, esiste un rimedio.

Le grosse borse sistemate con cura dai viaggiatori nelle casse portabagagli nascondono spesso tesori. In un minuto un sacco di plastica copre il tavolo di formica che separa i quattro letti di una cabina: è l’inizio di un banchetto notturno su un treno che taglia la notte fra Donetsk e Mariupol, sulle coste del Mar Nero. Dagli zaini escono pane, pomodori, cetrioli, mele, cipolle, pancetta e carne secca. La luce di una pila illumina il collo della bottiglia che si avvicina ai bicchieri per versare la vodka. Non esiste un viaggio che si concluda senza avere ascoltato la storia di un completo sconosciuto. Seduti uno accanto all’altro, nell’enorme mensa a cielo aperto della rivoluzione.