I francesi dicono «non c’è fumo senza fuoco», espressione che ci sembra più adatta alla situazione delle nostre banche piuttosto che il proverbio italiano che recita invece «non c’è fumo senza arrosto», anche perché di arrosto in questo caso se ne vede poco.

In questo giorno praticamente tutti i titoli bancari del nostro paese sono andati giù in Borsa e ci si domanda perché. Si fa riferimento alle difficoltà cinesi (ma l’ aumento di quella economia del 6,9% nel 2015 significa che al pil cinese si è aggiunta nell’anno una fetta grosso modo pari a tutto quello della Spagna); il paese asiatico è diventato il capro espiatorio di tutti i guai dell’occidente.

Ci si riferisce poi, più in generale, al clima di instabilità e incertezza con cui si è aperto il nuovo anno in giro per il mondo; proprio ieri anche il Fondo Monetario, dopo la Banca Mondiale, ha rivisto al ribasso le sue previsioni di sviluppo per il 2016.

Per quanto riguarda l’Italia, si allude al contrasto Renzi-Bruxelles, che nasconderebbe, tra l’altro, una querelle su come salvare il nostro sistema bancario, mentre si è diffusa la voce di una lettera della Bce che imporrebbe aumenti di capitale alle nostre banche per 40 miliardi di euro, soldi che forse solo i «poveri» cinesi sarebbero in grado di mobilitare. O si fa riferimento alle polemiche che nelle scorse settimane hanno visto degli attacchi feroci alla Banca d’Italia, cosa che non è piaciuta molto in l’Europa.

Speculare, ovviamente

Ma appunto non c’è fumo senza fuoco: in un clima di incertezza la speculazione si lancia verso gli obiettivi meno complicati. Non potendo assaltare il settore dei titoli pubblici, difesi da una Bce che continua a comprarne con ammirevole sollecitudine e fa da sola il lavoro quasi impossibile di abbassare a livelli sorprendenti lo spread, i lupi di Wall Street e quelli di Agrate Brianza se la prendono con il nostro sistema finanziario, che appare per molti versi una preda facile.

In effetti, una recente analisi della Epa, che ha riguardato 109 banche del nostro continente, ha messo in rilievo come le italiane siano tra quelle messe peggio.

Dopo Cipro, le nostre presentano i più bassi livelli di redditività; esse hanno il triplo delle sofferenze della media delle banche della Ue, ed anche la capitalizzazione è tra le più ridotte. Lo stock delle insolvenze è pari a 200 miliardi, cui bisogna aggiungere altri 150 miliardi per quelli deteriorati, un livello complessivo pari al 17% circa del totale dei crediti, un’enormità.

Soldi senza contropartite

In mancanza di una ripresa vera, in assenza anche di adeguati livelli di inflazione, il problema appare di tutto rilievo. Il governo cerca ormai da molto tempo di approntare un piano di salvataggio con il varo di una o più bad bank, tra i forti ostacoli posti da Bruxelles, e forse siamo ormai vicini alla meta. Ma, d’altro canto, i nostri politici, come peraltro quelli degli altri paesi occidentali, i soldi per le banche li trovano sempre e senza contropartite, almeno quelle ufficiali; molto più difficile che i soldi si cerchino per i pensionati, per il sistema sanitario nazionale, per i rinnovi contrattuali.

Istituti senza credito

Di recente, abbiamo letto una feroce analisi del Financial Times di qualche giorno fa sulla situazione di Unicredit; la banca ha approntato un piano di ristrutturazione al quale il mercato non crede e così il titolo ha perso dal 2007 ad oggi circa il 90% del suo valore di borsa.

Intanto una lettera vera della Bce annuncia una «normale» indagine conoscitiva sulla situazione dei crediti di sei banche nazionali tra le più importanti.