Dalla crisi del 2008 le banche sono state additate come l’epicentro dello sconquasso economico-finanziario. Tale accusa è meritata al 100%, in particolare per gli istituti di quei paesi che negli ultimi decenni hanno praticato una finanziarizzazione spinta della propria economia.

In Italia tale processo non si è dispiegato in modo altrettanto incisivo e la crisi nostrana è stata principalmente una retroazione di quella globale, in particolare per l’effetto depressivo della crisi finanziaria sull’economia reale. E poi ancora per l’effetto della crisi dei debiti sovrani. Da questo punto di vista le banche italiane, anziché esser state agenti della crisi, ne sono state perlopiù vittime. Indice, se si utilizza la lettura maistream, dell’arretratezza del sistema-Italia. O più precisamente della sua perifericità.

La crisi italiana, dunque, non è stata la risultante di un’anomalia virtuosa incentrata su un’economia sana, magari ancorata al piano locale, bensì la rappresentazione di un paese economicamente debole, finanziariamente ingessato e comunque a rimorchio. Lo stato del sistema creditizio fotografa questa condizione.

La crisi dell’economia reale ha mandato in affanno le banche. I loro crediti deteriorati sono stati prevalentemente la conseguenza della crisi del sistema d’impresa, piuttosto che di scorribande sul piano finanziario. Dopo il 2008 anche le banche italiane hanno iniziato un processo fondato su acquisizioni, concentrazioni e ristrutturazioni.

Come in ogni paese economicamente non all’avanguardia, i tentativi per risolvere i propri mali sono emulazioni di quelli fatti dai soggetti che dettano le regole un po’ per tutti. Dagli anni Novanta il numero di istituti è stato dimezzato. Dopo la crisi, nonostante sia migliorata la loro condizione patrimoniale, hanno un problema di redditività. Per la maggior parte delle banche il capitale di cui dispongono rende in quantità inferiore al suo costo. Le ristrutturazioni, dunque, proseguono da tempo, probabilmente esiste una sovracapacità produttiva, ma la bolla del credito è complessivamente cresciuta più dell’economia reale. Da qui i problemi.

I suggerimenti prevalenti, provenienti a più riprese anche dalla Bce, propongono di accelerare i processi di concentrazione, compresi quelli di ordine sovranazionale, in modo da sfruttare economie di scala, diversificare gli investimenti, ridurre nei bilanci il peso specifico dei titoli pubblici e sfruttare al meglio l’innovazione tecnologica. Questa è la teoria, poiché la pratica delle acquisizioni, e conseguenti ristrutturazioni, non sempre sembra voler soddisfare solo queste necessità.

È il caso di Ubi, il cui nome recentemente è andato alla ribalta per l’offerta di acquisizione di Banca Intesa. Ubi nel suo piano industriale ha recentemente previsto fino al 2022 utili in crescita per l’88% e taglio di occupati e sportelli per il 10%. Come se vi fosse una necessità di razionalizzazione a prescindere dagli andamenti registrati.

Se le concentrazioni vengono intese come l’unica strada da percorrere, in particolare per paesi come l’Italia, fatti di un tessuto produttivo diffuso e medio-piccolo, il rischio è quello di creare un sistema del credito ancora più distante dalla realtà in carne e ossa. Un esperto del sistema bancario come Marco Onado ha recentemente affermato che «le banche del territorio continuano a mantenere la loro ragion d’essere».

Varrebbe la pena di aggiungere che anche un protagonismo pubblico, non di semplice e occasionale soccorso, dovrebbe essere predisposto per fronteggiare l’emergenza che l’Italia sta vivendo sul piano economico e industriale innanzitutto. Nella consapevolezza che c’è un problema di efficienza, ma che va considerato insieme ai problemi di equità e sostenibilità sociale. Da questo punto di vista gli animal spirits in questi ultimi decenni non sembrano aver dato delle risposte adeguate alle contraddizioni che tocchiamo quotidianamente.