Le compagnie petrolifere non sono state lasciate da sole nella loro opera di compromissione della qualità dell’aria del pianeta, e continuano a essere in buona compagnia nell’ostacolare il passaggio a un modello energetico privo di emissioni. I complici, oltre a banche e istituti finanziari, sono anche i governi; in alcuni casi estremi, come negli Stati Uniti, si è praticato il deliberato occultamento della verità; a portarlo alla luce, racconta il libro Tutte le colpe dei petrolieri, un ex ricercatore dell’organizzazione no profit Food&Water Watch che, setacciando i dati forniti al ministero delle Wnergie americano da un organo consultivo sulle attività petrolifere, ha trovato che i rischi connessi all’utilizzo dei combustibili fossili erano stati comunicati alle autorità americane fin dagli anni ’70.

In generale, i governi sono a fianco delle compagnie petrolifere con il loro comportamento ambiguo, sbandierando l’obiettivo della riduzione delle emissioni da una parte mentre dall’altra perseverano nel sussidiare lautamente la combustione dei fossili. A livello internazionale si tratta del comparto più dipendente dai fondi pubblici: secondo la Iea, nel 2018 ha usufruito di quattrocento miliardi di dollari, mentre all’industria delle rinnovabili, e questo secondo un rapporto dell’International Institute for Sustainable Development , ne sono arrivati solo novanta. Questo squilibrio riguarda anche l’Ue, che soffre di una vera e propria forma di schizofrenia; a fronte delle iniziative effettivamente intraprese per ridurre impatti e l’annuncio del Green New Deal , il vecchio continente continua a investire miliardi di euro pubblici nell’industria fossile, e anche in progetti che sono in totale contraddizione con l’ambizioso obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050, come i gasdotti transnazionali: nel 2018 il commissario europeo per l’energia e il clima, Miguel Arias Cañete, ha dichiarato pubblicamente che forse il gas in Europa in futuro non avrà il ruolo del presente, e ha definito i gasdotti «stranded asset», ovvero opere che hanno perso la loro ragione d’essere. Se andiamo in Italia, la situazione non cambia rispetto alla media internazionale: sono i calcoli fatti dallo stesso ministero dell’Ambiente, pubblicati nel Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli (2018) a dirci che nel 2017 ben 17 miliardi di sussidi dannosi sono andati alle risorse fossili, mentre il settore delle rinnovabili ha avuto circa 15 miliardi di soldi pubblici; andando più nel dettaglio del rapporto si vede poi come vengano mantenuti vecchi vizi come il gap fiscale, rimasto invariato negli ultimi 3 anni, fra benzina e gasolio che favorisce l’utilizzazione del diesel, oppure che continuano a ricevere gli stessi sussidi diretti e indiretti l’utilizzo del carbone, o la ricerca e lo sviluppo di tecnologie finalizzate all’uso di petrolio e gas naturale, in aperto contrasto con gli obiettivi sottoscritti a Parigi.

Un altro modo con cui i governi si rendono alleati delle compagnie petrolifere, in questo caso quelle private, è il non coinvolgerle nelle decisioni sulla riduzione delle emissioni di gas serra, non imponendogli impegni vincolanti: gli strumenti tradizionali di politica climatica, come tasse sulle emissioni, regolamenti e misure per sostenere la domanda di prodotti a minore intensità di carbonio, si concentrano tutti sul lato della domanda e non sono sufficienti; sono necessari quindi anche strumenti integrativi sul lato dell’offerta, come bandi all’estrazione e alla produzione e tasse alla fonte, che non vengono impiegati in quanto l’attività di lobbing delle compagnie è potentissima, ma anche perché la crescita economica è ancora troppo legata alle dinamiche dell’oro nero.

Il secondo grande complice delle imprese petrolifere è la finanza: nell’inchiesta Finanza fossile di Re-common e Greenpeace Italia ci sono le misure di quella che è un’impronta climatica gigantesca lasciata sul pianeta da banche e investitori. A livello mondiale risulta che dalla firma dell’Accordo di Parigi le più grandi banche mondiali hanno finanziato i combustibili fossili con oltre 1.200 miliardi di euro. Le banche italiane non sono da meno: nel 2019, attraverso i loro finanziamenti all’industria fossile, le principali banche e investitori italiani hanno causato l’emissione di 90 milioni di tonnellate di CO2, l’equivalente delle emissioni annuali di tutta l’Austria. A condurre la classifica ci sono Unicredit e Intesa Sanpaolo, responsabili dell’80% delle emissioni con i loro 73 milioni di tonnellate di CO2: solo per farsi un’idea, un quantitativo pari a quattro volte le emissioni generate da tutte le centrali a carbone del Paese.