«Siamo bancari, non banchieri». In caso che qualcuno potesse confonderli. Cartelli, fischietti, slogan contro l’Abi e il governo Renzi: l’Italia deve essere peggiorata davvero tanto sul fronte del lavoro se in piazza a fare casino sono scesi adesso pure loro, i (tradizionalmente) calmi e posatissimi impiegati di banca. Quelli che un tempo venivano visti come “privilegiati”, i più moderati, e che adesso potrebbero diventare la prima categoria a perdere il contratto nazionale. Senza contare la nuova valanga di esuberi che si teme dopo le decine di migliaia degli ultimi anni.

Ben 68 mila, calcolano i sindacati, i “fuoriusciti” negli ultimi 15 anni: tra razionalizzazioni delle funzioni (via tanti sportelli, spazio a Internet), le grandi fusioni e il peso della crisi, che ha affaticato (nonostante le varie iniezioni di liquidi che si sono comunque succedute) i patrimoni degli istituti. E oggi, la minaccia per le popolari, dopo che il governo ha deciso di liberalizzarne completamente la proprietà: la paura è che si generino nuovi esuberi.

E poi c’è ovviamente la questione contratti, ancora più lampante quando si pensa che i “datori di lavoro” dei bancari – o meglio i loro manager più importanti e potenti – percepiscono stipendi milionari, come ricorda Susanna Camusso, ieri a Milano accanto ai lavoratori: «Con la crisi i banchieri hanno continuato ad arricchirsi, lasciando in difficoltà i bancari, in lotta per il contratto – ha spiegato – Basta un numero: il presidente della Bce guadagna 600 mila euro l’anno, i banchieri italiani 3,7 milioni».

Dati contestati dall’Abi, che cita le proprie «recenti elaborazioni e rilevazioni Banca d’Italia, aggiornate al 2013 e basate su un campione di 435mila lavoratori, corrispondenti a oltre il 90% del personale delle aziende e dei gruppi bancari italiani: il cosiddetto “personale più rilevante”, ovvero 2.011 unità, lo 0,46% dell’organico aziendale complessivo del campione, hanno ricevuto una retribuzione annua media pari a 245.400 euro». Ancora, aggiunge l’Abi, «gli amministratori delegati sono la componente cui va la retribuzione media più elevata, in media 703mila euro. Nel 2013 la componente fissa della retribuzione del top management è risultata pari a 187 mila euro, mentre la quota variabile si è attestata a 58.400 euro (di cui 29.900 euro sono obiettivi 2013).

Tutti i segretari sindacali, in grande spolvero nei cortei della prima grossa mobilitazione dell’anno, hanno ribadito che se l’Abi non riaprirà il dialogo «ci saranno nuovi scioperi» (Camusso). Carmelo Barbagallo (Uil) ha parlato di «proteste crescenti» e Anna Maria Furlan ha chiesto ai banchieri di «non fare orecchie da mercante». La Fabi ha dato una scadenza: «Se Abi non cambia atteggiamento, entro due settimane proclameremo altre azioni di lotta e di mobilitazione», dice il segretario Lando Sileoni.

L’Abi ha risposto con una nota, alimentando nuove polemiche: «In questa situazione di forte pressione sui ricavi, ulteriori aumenti del costo del lavoro, specie con inflazione e tassi prossimi allo zero, non sono sostenibili». Ma, aggiungono i banchieri, «c’è la volontà di arrivare a un rinnovo del contratto nazionale che possa conciliare le esigenze di recupero di redditività e produttività con quelle occupazionali e di tutela dei salari dall’inflazione. A questo mira la tempistica che, fissando la data del 31 marzo 2015, indica una scadenza chiara e netta, oltre la quale è prevista inevitabilmente la disapplicazione del contratto».

Disapplicazione del contratto, appunto: infatti i sindacati hanno segnalato il pericolo, fin dalla rottura delle trattative, lo scorso novembre, che l’Abi voglia dire addio al contratto nazionale, per andare a tanti aziendali. Nella nota di ieri il contratto nazionale invece viene nominato, ma aggiungendo che se non si raggiungerà un accordo entro il 31 marzo, esso non varrà più.

Trentamila persone che hanno sfilato in corteo in quattro città – Milano, Ravenna, Roma e Palermo – un’adesione del 90% allo sciopero e ben il 95% degli sportelli chiusi. Il risultato della protesta è stato molto positivo secondo i sindacati, che oltre a stringere sul braccio di ferro con l’Abi, hanno attaccato la riforma Renzi del credito, ovvero la rivoluzione prevista per le casse popolari.

Con annessi sospetti di speculazioni legate a questa riforma, espresse da Camusso: «Non è un bello spettacolo che subito dopo il decreto sulle banche popolari si scopra che c’è chi lo sapeva e ha speculato su questo». Davide Serra, fondatore di Algebris e considerato un sostenitore del premier Matteo Renzi, indicato nei giorni scorsi da rumor di mercato come uno dei soggetti più attivi negli acquisti di azioni delle banche popolari, ha detto che i suoi fondi investono sul settore fin dal marzo 2014.