All’inizio di quest’anno si è parlato, per qualche giorno, del Dsm-V (Diagnostic and statistical manual of mental disorders), uno dei testi di psichiatria più diffusi al mondo (in Italia, è curato da luminari anche televisivi come Andreoli e Cassano), in cui il numero delle sindromi psichiatriche aumenta a dismisura. Tanto per capirci, tra le sindromi depressive ci sono ormai il «lutto», la «collera», i «deficit di memoria» e le mangiate eccessive (dodici in tre mesi, una alla settimana, diventano un disturbo «psichiatrico»). E meno male che, dopo ampie discussioni, gli psichiatri americani hanno escluso dalla lista la «goffaggine», che avrebbe consegnato nelle loro mani milioni di adolescenti…

Non c’è affatto da ridere. Il primo problema è che, dopo qualche dibattito, nessuno ne parla più, benché critiche, anche feroci, siano state sollevate contro un metodo descrittivo che finisce per trasformare in sintomi comunissime sofferenze quotidiane. E quindi non dubitiamo che per pigrizia, conformismo o semplice abitudine, psichiatri di tutto il mondo adottino il Dsm-V come hanno fatto con quelli precedenti. Il fatto è che la critica della medicalizzazione, soprattutto psichiatrica, non è di moda. E soprattutto non è di moda il tentativo di interpretare le sofferenze, piccole e grandi, non come patologie individuali, ma come riflessi o conseguenze di difficoltà legate alla sopravvivenza materiale e sociale. Ci attediamo che prima o poi qualche psichiatra, americano o nostrano, scopra che la precarizzazione è un’inclinazione del soggetto e non dell’economia contemporanea…

Il fatto è che, dietro questa psichiatrizzazione del mondo ci sono gli interessi delle ditte che producono psicofarmaci (con cui gli psichiatri del Dsm hanno, secondo molti, proficui rapporti). La questione è tanto più minacciosa, quanto più riguarda i bambini che ora, per insipienza e ingenuità dei genitori o corrività di psicologi e insegnanti, vengono sottoposti a cure farmacologiche per la sindrome ADHD o da iperattività infantile. Come spiegano bene due terapeute esperte della questione (Emilia Costa e Daniela Muggia, Giù le mani da Pierino, edizioni Amrita, pp.185, euro 15), la psichiatrizzazione degli scolari comporta, oltre il fraintendimento della vivacità infantile, la diffusione di farmaci come il Ritalin e altri, i quali iniziano precocemente a rinchiudere i bambini in una camicia di forza chimica. Nel libro, le terapeute interpretano i sintomi dell’ADHD, mostrando come spesso siano segni di difficoltà relazionale, o sistemica, se non iper-sensibilità e intelligenza sviluppata. Il loro metodo, alternativo alla chimica, si basa sull’ascolto e l’empatia e si configura come una sorta di accompagnamento attraverso le porte del dolore verso l’età adulta.

Ben venga qualsiasi metodo di relazione con i bambini che rifiuta la chimica, e si ispira a Jung, alla saggezza tibetana, al buddhismo o semplicemente a un psicologia umanistica e di buon senso. Resta il fatto che una certa sensazione di spaesamento psicoterapeutico emana anche da questo libro. Le due autrici non mettono in discussione l’esistenza dell’ADHD, pur decostruendone i sintomi, scegliendo piuttosto di concentrarsi sulla sofferenza individuale e sulle sue ragioni sistemiche.

Ma c’è da chiedersi, invece, se ciò che noi chiamiamo «sindrome» non sia affatto estraneo allo sguardo istituzionale che fissa il comportamento infantile secondo certi parametri sociali, in evoluzione, ma sempre costrittivi. La «realtà» dei sintomi, con buona pace dei realisti filosofici, potrebbe essere, in definitiva, il risultato di costruzioni terapeutiche a cui non si sottraggono nemmeno le cure più umanistiche. C’è da chiedersi, insomma, se, rinunciando al ruolo terapeutico di accompagnatori verso la saggezza, il vero posto degli adulti non stia, semplicemente, nel mettersi dalla parte dei bambini contro qualsiasi manipolazione, per quanto benintenzionata.