Henry James, nell’Arte del romanzo, racconta della scrittura di Balzac come di un universo di gabbie. Balzac per James è un prigioniero di se stesso, animato da una smania distruttiva che lo costringe a girare lungo la ruota senza fine della scrittura come un roditore in trappola. L’idea della gabbia, del resto, che riunisce in un’unica immagine condanna e condannato, esercizio del controllo e ciò che a questo controllo oppone resistenza, è un tema ricorrente nella Commedia umana così come nella vita di Balzac. Gautier fa di lui il ritratto di un ossessivo, sottomesso a un rigidissimo protocollo di igiene letteraria dispensato sotto forma di consigli a chiunque voglia intraprendere la carriera di scrittore: «Avremmo dovuto starcene rinchiusi in casa per due o tre anni, bere acqua, cibarci di lupini, andare a dormire alle sei di sera, svegliarci a mezzanotte e lavorare fino al mattino, passare la giornata a rivedere, ampliare, modificare, perfezionare, limare il lavoro notturno e soprattutto vivere nella castità più assoluta».

Gabbie sì, ma difettose
Se per Balzac la perfetta padronanza formale della frase sembra coesistere con il progetto di una possibile sublimazione della pulsionalità fisica, anche i personaggi balzachiani, come il loro autore, sono spesso il prodotto dell’utopia di un corpo imbrigliato, interamente dominabile razionalmente. Louis Lambert dell’omonimo romanzo, genio melanconico della sublimazione filosofica – che non caso scrive in gioventù un Trattato della volontà per poi impazzire il giorno prima del matrimonio – oppure Raphaël de Valentin, protagonista demoniaco della Pelle di zigrino, sono solo alcuni dei rappresentanti di un conflitto insanabile tra il tentativo di controllare il desiderio e la sua radicale irriducibilità a questo stesso controllo. Perché se la scrittura di Balzac è piena di gabbie, è altrettanto vero che queste gabbie sono più o meno tutte difettose.

Anche Honorine, ora in una nuova edizione a cura di Pierluigi Pellini (traduzione di Francesco Monciatti, Sellerio, pp. 244, euro 13,00) novella di Balzac non troppo nota in Italia, è la storia una gabbia, una doppia gabbia. La prima – interna e autoindotta – riguarda l’amore di un magistrato, il conte Octave, per la moglie che lo ha abbandonato. Un amore che non lascia spazio ad altro, così grande da divorare qualsiasi aspetto della vita del conte, un’ossessione, quindi, o una monomania come l’avrebbero chiamata gli alienisti dell’epoca. La seconda è la gabbia in cui vive, inconsapevole, la moglie adultera di Octave, Honorine, fuggita di casa per amore di un uomo che presto la abbandona, incinta, lasciandola nella più totale solitudine.

Dopo la fuga dell’amante e la morte del suo bambino di pochi mesi, Honorine decide di non tornare comunque dal marito, ma di costruirsi – esempio di un protofemminismo abbastanza raro per l’epoca – una vita autonoma, lavorando come artigiana. La cosa che però Honorine non sa è che la sua libertà di piccola venditrice di fiori di stoffa rappresenta un’autonomia fittizia, dal momento che è il conte Octave materialmente a mantenerla pagando le modiste parigine perché comprino i suoi fiori a un prezzo fuori mercato e permettendole, tramite un intermediario, di pagare un affitto irrisorio per la casa in cui abita.

Una fine disonorevole
Honorine vive quindi, letteralmente, all’interno dell’universo mentale di un altro, prigioniera come scrive Pellini nella postfazione al libro «non di una violenza prevaricatrice, ma al contrario una più subdola e per certi versi insopportabile bontà possessiva di un maschio tirannico». Octave protegge la moglie, si preoccupa della qualità dei suoi pasti, della morbidezza delle stoffe che la vestono, facendosi carico di ogni suo bisogno o desiderio da perfetto padrone pieno di premure verso l’animale più prezioso del suo personale zoo nevrotico. In teoria, questo scambio tra una libertà addomesticata (quella di Honorine) e un’ossessione sublimata (quella di Octave) perfettamente incastrate l’una sull’altra potrebbe essere un gioco senza soluzione di continuità, se non fosse che ancora una volta l’equilibrio si rivela fragile e l’apertura delle gabbie degli sposi ne decreta di fatto l’annientamento.

La novella finirà malissimo perché nella scrittura balzachiana non sembra esserci spazio per una legge del desiderio che non preveda l’intervento immediato di una volontà ordinatrice e il più delle volte crudele. Honorine che ha vissuto per anni rinchiusa nel carcere invisibile del desiderio di Octave, finalmente libera, si ritroverà a imporre a se stessa una nuova struttura coercitiva. Ancora una volta il tentativo di mettere in scena un trionfo della volontà (questa volta la sua) sull’irriducibilità del corpo. Ancora una volta una gabbia sublimatoria perfetta, ma dalla porta visibilmente troppo fragile per reggere i colpi e le spinte di quanto si trova rinchiuso al suo interno.