Romanzo preziosissimo, commovente e cinico, storico e satirico, turpe e morale, Pierrette è una perla sperduta nell’oceano della Commedia umana, uno di quei libri che non si finisce mai di interpretare, perché è difficile ingabbiarlo in una formula, e ogni senso che gli attribuiamo ne fa sorgere un altro e poi un altro ancora. Romanzo riuscito, senza dubbio, ma anche imperfetto, come sempre nell’opera di un romanziere a cui si perdonano volentieri tutte le imperfezioni, anche tutti i difetti, perché pesano così poco sul piatto della bilancia, rispetto al contrappeso delle sue straordinarie qualità.

Ha fatto bene Pierluigi Pellini a pubblicare Pierrette da Sellerio (pp. 400, € 14,00) in una piccola serie in cui ha già inserito Honorine, Albert Savarus, Il parroco di Tours e alcuni altri titoli non famosissimi di Balzac. La piacevole traduzione di Francesco Monciatti rende accessibile al pubblico italiano un romanzo da molti decenni assente dalle librerie italiane. Non si dirà mai abbastanza quanto sia difficile tradurre Balzac, e quanto si debba esser grati a coloro che vi si dedicano.

La Storia, macchina ineluttabile
Pierrette è una vittima innocente, una ragazza buona, sbadata, ingenua, allegra, che si ritrova in mezzo agli ingranaggi della macchina sociale e ne è triturata, schiacciata, annientata. Quella di Pierrette è una storia minuscola nella grande Storia, il racconto della vita di una ragazzina di campagna nel bel mezzo della Restaurazione e all’inizio della monarchia di Luglio, ma Balzac ci mostra non solo la pochezza dell’individuo e l’immensità del sistema, ci mostra anche tutti gli ingranaggi intermedi che fanno in modo che tra l’uno e l’altro ci sia continuità, e che nessun essere umano sfugga, nel mondo moderno, al terribile imperativo di farsi un posto al sole. Per riuscirci, tutte le bassezze sono possibili, nelle alte sfere del potere, in quelle intermedie degli affari, dell’opportunismo, del compromesso, del cinismo, e fino alla sfera bassissima di coloro che non ce la fanno, che non possono strappare neanche un’oncia di quel potere ormai alla portata di tutti, nella società democratica.

Percorso da un terribile interrogativo morale, il romanzo è quindi la descrizione particolareggiata del meccanismo ingiusto ma ineluttabile dell’interesse, del sopruso, della vigliaccheria, che abitano ormai a tutti i piani dell’edificio sociale, da quando la Rivoluzione ha imposto l’uguaglianza. Lungi dall’essere il mondo della fraternità, secondo Balzac quello che è seguito al trionfo dei Diritti dell’uomo è il mondo dell’egoismo e del conflitto, la giungla democratica in cui tutti i colpi sono permessi, in cui il denaro decide di ogni comportamento e distrugge ogni affetto, tranne il più antico e più umano, l’amor proprio.

La povera Pierrette è fatta a pezzi dalla grettezza di parenti bottegai arricchiti, prima adulata ma poi abbandonata da famiglie nobili o notabili in guerra tra di loro; si trova in mezzo a odii, interessi politici, economici, guerre famigliari e concorrenze simboliche, di cui non sospetta neppure la profondità. Il colpo finale le sarà inferto dal capovolgimento politico del 1830, ondata che da Parigi arriva fino alle sponde più remote della vita di provincia. È difesa da due soli eroici personaggi: il suo innamorato, un operaio poco più che adolescente, e la vecchia nonna contadina. In questi personaggi si rifugia quel poco di nobiltà d’animo che ancora si può incontrare nel mondo post-rivoluzionario.

Guerra tra buoni e cattivi, molto squilibrata, certo, ma comunque effettiva e radicale, come in quel genere drammatico che i francesi chiamano mélodrame (che non va confuso con il nostro melodramma lirico), in cui agli inizi dell’Ottocento si affrontavano sulla scena un personaggio vittima innocente e il suo perfido persecutore. Nel mélodrame il bene e il male sono forze che agiscono nella realtà, incarnate da personaggi fissi in uno scontro manicheo, come ha spiegato in The Melodramatic Imagination, celebre libro del 1974, il grande critico americano Peter Brooks. E in Balzac questo conflitto morale è perlopiù sotterraneo, celato dalla complessità sociale, dal moltiplicarsi dei personaggi e delle vicende, dalla storicità dell’ambientazione, ma nondimeno effettivo e decisivo.

In Pierrette sembra manifestarsi in superficie, invece di celarsi nel profondo: per questo il romanzo è stato spesso giudicato uno dei più melodrammatici dell’intera Commedia umana. Ma naturalmente ciò non vuol dire che sia un mélodrame in senso stretto, né che la struttura elementare di questo genere teatrale possa render conto di tutta la sua complessità. Il punto di vista del bene non è solo indebolito, ma confrontato a un profondo scetticismo antropologico e storico: i buoni a volte sembrano insignificanti e incapaci, di fronte alla potenza dei cattivi, e la conclusione del romanzo sfiora l’idea che in fondo l’infamia sia la sola realtà possibile, e che sia quasi giusto che chi cerca di opporvisi sia spazzato via. La Storia è ineluttabile, la Società deve continuare a funzionare, come una macchina che espelle i detriti inutili al suo funzionamento. Per questo la teoria del capro espiatorio di René Girard è stata utilizzata per spiegare Pierrette, da Mariolina Bertini in un articolo di qualche anno fa. Il melodramma teatrale ha di solito un lieto fine, il romanzo di Balzac non può finir bene, perché al bene non si oppone soltanto il male, ma anche la consapevolezza di come va il mondo, da sempre, e più che mai da quando la modernità economica e politica lo ha trasformato.

Ma come si fa a far stare insieme, in un solo romanzo, l’intelligenza lucida della realtà e le due cose che, secondo Spinoza, la impediscono, cioè il pianto e il riso? Il pianto melodrammatico, l’intensità patetica, con cui partecipiamo alle sofferenze di Pierrette, il riso con cui reagiamo alle piccolezze dei suoi persecutori parvenu, e lo sguardo storico, sociologico, oggettivo, con cui consideriamo gli andamenti della lotta di classe in Francia e i loro intrecci con i regimi politici che si succedono. I critici marxisti tendevano a pensare che questa terza componente si potesse isolare dalle prime due; oggi la critica è più propensa a credere che questi diversi elementi siano difficilmente separabili, ma tutti stentiamo a definire in modo nuovo i loro rapporti.

Quel che resta del riso e del pianto
Pierluigi Pellini, nella bella postfazione al romanzo, fa vedere come il comico ci sia altroché, ma anche come si spenga nell’assenza di un punto di vista capace di reggerlo fino in fondo (come nel riso volteriano, che giudica dall’alto i pregiudizi); e, simmetricamente, come le lacrime compassionevoli finiscano per asciugarsi nell’accettazione della realtà così com’è. Ciò che è stato spesso chiamato il serio, per distinguerlo contemporaneamente dal tragico e dal comico, è forse questo residuo, quel che resta dopo che il riso e il pianto si sono ritirati, ma che forse non esisterebbe se non ci fossero stati.