Quello di Raffaella D’Elia – a cinque anni da Come le stelle fisse e a dieci dall’esordio di Adorazione – era un ritorno atteso. Almeno per chi era già incappato nella sua scrittura restandone ammaliato. Distanti dai percorsi narrativi più battuti, quelle scritture di D’Elia erano veri corpi estranei, baluginanti microcosmi posati su palinsesti eterogenei, composizioni dense ed evocative tra il saggio, l’autobiografia e la finzione. Questo terzo libro, Ritmi di veglia (Exòrma, pp. 120, euro 13), conferma tale postura e fa pure uno scarto di lato, intessendo il testo con il filo legato a una figura di danzatrice, Ida, in costante lotta con la propria arte, il proprio sé, il proprio stare al mondo.

C’È UN PARAGRAFO, in questo libro composto di brevi capitoli dall’andamento carsico, che suona come un programma: «La lentezza come preghiera, come ossessione. Leggere bene le parole sulla pagina, sono fuochi al neon che nascondono la consequenzialità dell’alfabeto, la fanno saltare e ritornare come una sincope, come una sincope». È un’indicazione preziosa, che non solo deve aver tenuto ben presente colei che ha riempito la pagina, ma di cui dobbiamo fare tesoro pure noi che, adesso, siamo chiamati a interpretarla. Il libro di D’Elia chiede infatti di essere letto lentamente, seguendone il respiro sincopato, tastandone i rilievi e i vuoti d’aria, i frequenti cambi di passo che d’un tratto separano le pagine per poi riavvicinarle, a distanza, secondo una mappa di riferimenti che via via si chiarisce e al contempo sfuma in allegoria.

LA SINGOLARITÀ della scrittura di D’Elia la si percepisce bene se si va a osservare le figure che abitano il suo libro, dai profili affini a quelli della prosa di una Ceresa, di una Sarraute. Certo, c’è Ida, come si diceva, e c’è una traccia che segue ondivaga la sua storia. Ma c’è anche un «io» – di nuovo, come nei libri precedenti – più autoriale, autobiografico, che si sovrappone e si giustappone al «lei» della danzatrice (e che quindi ne riverbera i contorni, in un dialogo continuo).

Le due prospettive si toccano e si intersecano, e se da una parte questo causa disorientamento a una lettura sciolta, dall’altra le ombre che si proiettano l’una sull’altra finiscono per creare scenari suggestivi, disegnando il panorama a due punti di fuga di un mondo dolorosamente contundente, dominato dalle ossessioni, dai rovesci, dai «senza» di una «vita tolta alla vita», di un «tempo sottratto al tempo»: una vita e un tempo segnati da una solitaria assenza.

LE DUE VOCI PRINCIPALI di questi Ritmi di veglia risuonano quindi di un’armonia scossa, infranta, e con le loro parole misurate, scavate nel dolore, ci comunicano l’«incapacità di stare in mezzo alle cose della giornata senza patimento», le «malattie degli occhi sgranati», gli «stupori colpevoli». Un pervasivo «senso della perplessità» che avvolge «l’umanità nelle sue mestizie», e che sbalza dalla pagina di queste veglie con atipica, sommessa e ribollente forza espressiva.