È passata senza incidenti la prima notte di coprifuoco a Baltimora. La città presidiata da falangi di polizia e da 5.000 truppe della guardia nazionale mobilitate dal governatore. Lo stato di emergenza prevede che i cittadini rimangano a casa dopo le 22 per i ragazzi minori di 14 anni a conferma che le invasioni barbariche così deplorate da stampa e politici sono state in gran parte proteste spontanee di liceali adolescenti dei ghetti di West Baltimore e non come preventivamente anticipato dal capo della polizia, un’azione concertata dalle gang della città.

Durante i disordini membri delle «bande criminali» hanno semmai organizzato un servizio d’ordine interno limitando i danni e proteggendo alcuni esercizi dei quartieri dagli incendi. Le bande sono spesso le uniche strutture associative per i ragazzi disoccupati nei fatiscenti quartieri neri e dopo i disordini i principali gruppi, Crips, Bloods e Black Guerilla Family hanno tenuto un comizio congiunto assieme alla Nation of Islam per ribadire la solidarietà coi manifestanti. Una «politicizzazione» che certo non ha fatto piacere ai fautori della narrazione ufficiale secondo cui le sommosse hanno espresso la violenza gratuita di «teppisti». A Baltimora la rabbia ha raggiunto livelli di guardia e le immagini di folle di giovani neri in rivolta hanno riacceso come sempre accade il dibattito su mali sociali storici che in molte città americane trovano radici profonde.

È sicuramente così a Baltimora, storico porto commerciale del Maryland duramente colpito dalla deindustrializzazione degli ultimi decenni. Dello sventramento economico ha fatto principalmente le spese la classe operaia e multietnica della città. La scomparsa del lavoro (centomila poti svaniti dal 1950-1995) scarsamente compensata da un emergente terziario di era globale-finanziaria e il vuoto creato è stato inevitabilmente riempito da lavoro precario e piccola criminalità, la dinamica che ha lasciato «orfani» ampi settori disagiati in particolare la maggioranza nera (63%) della città. Un terzo delle famiglie nella «inner city» afroamericana vive sotto la soglia federale di povertà ed ha un rischio di morte violenta doppia rispetto ad altri quartieri. Una statistica cui contribuiscono le uccisioni da parte della polizia: dal 2011-2014 la città ha pagato oltre 10 milioni di dollari in risarcimenti per violenze ingiustificate dei propri agenti. Una somma che come ha notato il quotidiano cittadino Baltimore Sun, sarebbe stata sufficiente a costruire 30 nuovi parchi giochi.

Davanti all’omertà della polizia è impotente anche un sindaco pure ben intenzionato come Stephanie Rawlings-Blake, afro americana figlia di una leader dei diritti civili come era Howard «Pete» Rawlings. In questi giorni Rawlings-Blake, come Barack Obama, si trova a tentare di gestire la situazione tra la solidarietà nominale alle forze dell’ordine e quella coi cittadini. «La comunità di Baltimora non è differente da quella di Chicago dove ho cominciato a fare politica» ha affermato il presidente martedì. «È un film che già visto troppe volte».

Tuttavia, come è già accaduto a Ferguson, Obama che ha impostato il suo mandato come presidenza «post-razziale» si trova in una posizione ancora più ambigua oggi quando la crisi è esplosa a 60 km dalla Casa bianca. Baltimora sarà il primo banco di prova per Loretta Lynch, prima donna ministro della giustizia nera insediatasi appena tre giorni fa dovrà mostrare l’effettiva volontà di riforma del governo. Ieri Lynch ha ribadito l’inchiesta federale aperta dal ministero sui disordini e sulla morte di Freddie Gray.

A Ferguson l’iniziativa analoga non è servita a condannare l’agente responsabile della morte di Michael Brown ma ha confermato la discriminazione metodicamente applicata dalla polizia e aperto la strada al commissariamento del dipartimento. Lo stesso potrebbe accadere – e da molti è auspicato – a Baltimora. Allo stesso tempo martedì  il presidente ha dichiarato “Non posso commissariare tutte le polizie del paese”.

In un articolato intervento Obama non ha fatto sconti a contestatori ne agli elementi colpevoli della polizia, sottolineando le radici politiche della crisi. “se non riusciremo a cambiare come nazione e come società” ha detto, “non potremo risolvere il problema. Il conflitto fra polizia e comunità disagiate sarà destinato a ripresentarsi ciclicamente salvo venire regolarmente dimenticato”.  Una analisi lucida cui ha fatto fronte quella di Pierre Thomas, residente dei quartieri  “bruciati”, che alla radio NPR ha detto: “adesso tutti fanno appelli per la pace. Ma  dove era la pace quando la polizia ci sparava e quando venivamo licenziati, dov’era la pace allora?”