Alla Casa Bianca siede Barack Obama, il ministro della Giustizia è una donna afroamericana, Loretta Lynch, il sindaco di Baltimora, Stephanie Rawlings-Blake, è nera anche lei, ed è afroamericano il capo della polizia Anthony Batts, com’è naturale che sia in una città dove due terzi della popolazione ha la pelle scura. Ma tutto questo non ha cambiato nulla negli anni: i 3.080 poliziotti di Baltimora (per una città con poco più di 600.000 abitanti) hanno una tradizione di violenze a danno degli afroamericani che non nasce certo con la morte di Freddie Gray dieci giorni fa.

Risalgono addirittura al 1959 e al celebre capo della polizia di allora James Hepbron le accuse di falsificazione delle prove, intercettazioni illegali, violenze contro cittadini disarmati, brutalità contro vecchi e bambini (nel solo 2007 furono arrestati Venus Green, 87 anni, per aver cercato di aiutare il nipote ferito, e Gerard Mungo, anni 7, per essere andato in bicicletta). Negli ultimi quattro anni, la città ha pagato 5,7 milioni di dollari come risarcimento a oltre 100 persone arrestate ingiustamente o picchiate dalla polizia.

Le rivolte, i saccheggi, gli incendi sono oggi a Baltimora, come qualche mese fa a Ferguson nel Missouri, ma potrebbero accadere ovunque nelle comunità afroamericane dove la vita non è cambiata di un soffio dalle elezioni del 2008 in poi. Un tempo città industriale e porto fra i più affollati degli Stati Uniti, Baltimora è oggi celebre solo per la serie televisiva The Wire, e per le sue squadre di football (i Ravens) e di baseball (gli Orioles) mentre l’economia stagna e il 37% dei suoi bambini vive in povertà. I giovani afroamericani non hanno oggi più possibilità di andare a scuola, di trovare un lavoro decente, di formare una famiglia di quante ne avessero anni fa, al contrario.

A livello nazionale, la povertà è aumentata regolarmente nel 2009, 2010, 2011, si è stabilizzata nel 2012 e nel 2013, quando riguardava il 15,8% della popolazione americana. A Baltimora, però, è quasi il 24% e nel centro storico ci sono quartieri dove supera il 55%.

I casi di omicidio di giovani afroamericani negli ultimi mesi hanno rivelato una brutalità della polizia che non è casuale: è il risultato di una lunga storia di politiche repressive in cui la maggiore responsabilità la portano i democratici americani, ossessionati dal successo dei repubblicani nell’usare il tema “legge e ordine” fin dal 1968. Sono stati infatti i democratici come Ted Kennedy a introdurre negli anni Settanta le leggi di riforma che aumentavano le pene per reati minori, in particolare legati al consumo di stupefacenti, mentre fu durante la presidenza Clinton, negli anni Novanta, che si affermò l’osceno principio delle leggi note come “Three strikes and you are out” che mandano all’ergastolo chi commetta tre reati violenti o (in California) qualsiasi tipo di reato.

Tutti i presidenti hanno continuato la politica di militarizzazione delle forze di polizia (che negli Stati Uniti dipendono dai governi locali) con la cessione di mezzi militari dismessi dal Pentagono, l’addestramento, la rinuncia a intervenire sulle procedure standard degli arresti e delle detenzioni dei cittadini, mentre tutti ignoravano le grossolane violazioni della Costituzione commesse in nome della “guerra alla droga” (a sua volta trasformata in operazioni militari sia all’interno che all’estero). Il predecessore di Loretta Lynch come Attorney General, Eric Holder, aveva avviato nel 2013 un modesto programma per ricondurre alla “normalità” la lotta contro gli stupefacenti ma ben poco è cambiato e il tema non sembra fra le priorità dell’amministrazione Obama, che comunque potrebbe fare ben poco per cambiare leggi dei singoli stati o i regolamenti dei singoli dipartimenti di polizia.

C’è quindi poco da attendersi dalle indagini sulla morte di Freddie Gray, così come nulla è accaduto dopo quella di Michael Brown a Ferguson e quella di Eric Garner a New York: gli Stati Uniti non vogliono ancora rimettere in discussione una politica repressiva che ha le sue origini lontano nel tempo.