«Sto preparando una nuova tela. Una tela piuttosto feroce. È una scena erotica, ma che beninteso non ha nulla di divertente: non è una di quelle piccole infamie che ci si mostra clandestinamente dandosi colpetti di gomito. No, io voglio declamare alla luce del sole con sincerità e partecipazione tutta la tragedia e l’emozione di un dramma della carne, proclamare a gran voce le incrollabili leggi dell’istinto. Morte agli ipocriti! Come vedi, mi espongo con decisione agli insulti che certo verranno».
Siamo nel 1934 e Balthasar Klossowski de Rola detto Balthus è al lavoro per dare alla luce uno dei quadri più scandalosi del Novecento: La Leçon de guitare. Il soggetto è una donna intenta a punire una ragazzina nuda posta sulle sue gambe, con una mano pericolosamente vicina al suo pube glabro e l’altra impegnata a strattonare una ciocca di capelli della punita che, a sua volta, stremata dal contorcersi, si è aggrappata al vestito dell’insegnante, facendone fuoriuscire un seno dal capezzolo voluttuosamente turgido. Il fatto che l’opera non sia esposta alla mostra inaugurata da pochi giorni alla Fondazione Beyeler di Basilea (fino all’1 gennaio) è perfettamente in linea con la sua travagliata storia, che la vuole tra le più note, eppur meno viste, tra le tele di Balthus. Del resto, non solo, quasi fosse l’Amor Vincit Omnia di Caravaggio in casa Giustiniani, alla sua prima esposizione nella galleria di Pierre Matisse, uno dei più importanti mercanti del Novecento, nipote di Henri e primo gallerista di Balthus, il dipinto venne collocato in una stanza separata e semichiusa da una tenda. Quando lo stesso Pierre, nel 1978, donò il dipinto al MoMa di New York, venne restituito al mittente dopo quattro anni, per le continue proteste e polemiche che suscitava. Nella penuria delle dichiarazioni sulla propria opera di un artista proverbialmente refrattario alle interviste, questo passaggio di una lettera ad Antoinette de Watteville, colei che sarebbe diventata la sua prima moglie, dà una chiave di lettura non solo al dipinto, l’unico per il quale Balthus non negò il carattere erotico, ma all’intera opera dell’artista, allora ventiseienne, colto nei primi anni della sua produzione di bambine ritratte in pose – quando non esplicitamente in nudità – spesso conturbanti fino a far mancare il fiato.
Passeggiando in mostra, disorientati nel diapason tra l’eroticità indicibile e una bellezza formale capace di incantare, troviamo in queste parole uno spazio interpretativo d’appoggio: dietro l’apparente quiete di un’anima sospesa, Balthus si ammette obbligato alla raffigurazione di «tutta la tragedia e l’emozione di un dramma della carne», nonché prono alla resa personale – e sociale – di fronte alle «incrollabili leggi dell’istinto». Si tratta di un momento di sincerità, in verbo e pictura, che lo stesso Balthus volle del resto far immediatamente sprofondare nel retropalco, impedendo l’esposizione e la riproduzione dell’opera fino alla sua morte, nel 2001, quando La lezione di chitarra riapparve, per la seconda e ultima volta, nella retrospettiva commemorativa a Palazzo Grassi. Del resto, chiude il cerchio interpretativo del dipinto un disegno del maestro eseguito ben quindici anni dopo (1949), con il quale diede volto esplicito a un’immedesimazione che non era difficile immaginare, raffigurandosi al posto della maestra sculacciante.
A quasi vent’anni dalla sua morte, appare doveroso permettersi la sincerità che lo stesso Balthus si era negato. Non possiamo eludere l’alveo pruriginoso della sua pittura, negandolo o tralasciandone la portata d’inquietudine e fascino. Incorreremmo necessariamente nei vizi di una pruderie polverosamente d’antan a non fare i conti con la pulsione erotica, e pedofila, che ha alimentato così potentemente l’urgenza creativa dell’artista, traducendosi in un più o meno esplicito soggetto di rappresentazione che, a quanto sembra, si dimostrò comunque insufficiente a sublimarne, e scongiurarne, la pratica personale. La Beyeler, del resto, non cade nella trappola di chi pensa di aggirare il tema e affronta di petto anche le recenti polemiche, esponendo una stupefacente terna di dipinti, culminante in Thérèse rêvant del Metropolitan di New York (1938). Meno di un anno fa, era stata oggetto di una, fortunatamente inascoltata, petizione pubblica di grande successo, che ne richiedeva la rimozione.
A Basilea si invita il pubblico a dire la propria su un tema centrale come la libertà dell’artista e i suoi limiti, promuovendo una «Balthus Discuss» in una bacheca predisposta in mostra, sui social della Fondazione e lanciando un apposito forum online, in vista di una tavola rotonda (7 novembre). Una calibrata strategia comunicativa del museo, certo, ma la domanda che suscita rimane uno dei punti di maggior interesse e attualità dell’opera balthusiana. Non si tratta di eludere gli interrogativi sulla qualità e modernità del suo arcaismo, ostentato in faccia alle avanguardie mentre il mondo (non solo della pittura) si stava sfasciando e trasformando intorno a lui. La domanda sulla necessità dell’arte, su cosa siamo disposti ad accettare da un artista perché funzionale all’opera e alla comprensione di ciò che ne innerva la forza, ci ributta necessariamente a considerare con maggior attenzione l’opera stessa, a valutarne la qualità, nel tentativo di stabilire in che misura, per così dire, il fine abbia giustificato i mezzi.
La mostra a Basilea, con le sue quaranta opere, permette certamente una verifica esaustiva, mostrando l’intera parabola del pittore con veri capolavori. In uno dei più celebri dipinti dell’artista, La Rue del MoMA (1933), l’ozioso camminare di una sparuta umanità assortita in una traversa parigina e la formalità geometrica di movimenti e masse che fa pensare alla pittura parietale egizia o alla scultura sumera, nasconde i veri protagonisti della scena, posti all’estrema sinistra. È la rappresentazione di un tentato stupro, sebbene, in seguito a una correzione autografa del dipinto, voluta dal collezionista che lo acquistò, la mano dell’aggressore che si insinuava tra le gambe della sventurata sia stata chiusa e spostata fuori dal precipizio.
Ma la caratura erotica di Balthus, il premere della pulsione della carne, emerge nella sua potenza non quando viene marginalizzata, ma quando appare imbrigliata dalle forme e lontana dalla sua citazione letterale. Talvolta si appoggia alla metafora sessuale che struttura la composizione, come nella ragazzina che offre una precisa visione del proprio corpo al garzone impegnato a trafficare nel camino, invitandolo ad accendere ben altro fuoco (Les Beaux Journ, 1944-’46). Ma se un giudizio sulla grandezza della sua pittura si vorrà trarre, dovrà cercarsi in mostra nella sua capacità, o meno, di sublimare la materia. Una carica materica ben più pregnante e parlante di quanto si possa pensare, soprattutto in dipinti formalmente inseriti in rigide strutture compositive, fatte di proporzioni classiche e reminiscenze di Piero della Francesca e Masaccio, pittori, come è noto, amati, studiati e copiati in gioventù. È quando Balthus, superato il vertice figurativo della sua pittura degli anni quaranta, cerca la rarefazione nella pennellata, quando la materia sembra esplodere in un pulviscolo di ori e argenti, rimanendo in superficie e facendosi grumosa e tattile fino alla provocazione, che l’artista tenta veramente il salto della modernità. Accade in opere come Le Rêve II (1956-’57). Le ragazzine crescono d’età e forma, mentre le vesti ampie le imbustano all’unisono. È a questo punto che sembra lecito recuperare i compagni e maestri del secolo. Matisse chiama a sé le tappezzerie e i tappeti, persino il mobilio, Picasso i corpi solidi del riposo e una fanciulla fa scintillare le particelle dorate della pittura, irrompendo nella scena da destra come in una Guernica caduta in pace. Perché è inevitabile che, al di là dei soggetti, oltre le perversioni o purità evocate, ciò che potrà decretare la modernità di Balthus sarà solo la sua riuscita nel tentativo di far erigere la materia stessa, di aver indirizzato questa carica erotica e vitale sotto la crosta del pigmento. Del resto, solo così la pittura è stata capace di sopravvivere al Novecento.