Il Sacre du printemps, allestito per la prima volta al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi il 29 maggio 1913, rappresenta il momento culminante della sensazionale esperienza artistica dei Ballets Russes.
Le produzioni della compagnia di Serge Diaghilev, sbarcata ufficialmente a Parigi nel 1910 con una serie di spettacoli tra cui il nuovo balletto L’oiseau de feu di un giovane e sconosciuto allievo di Rimskij-Korsakov, Igor Stravinskij, apparvero al pubblico parigino, assuefatto al teatro simbolista, qualcosa di completamente nuovo. L’arrivo degli artisti russi, preparato negli anni precedenti da una serie di iniziative dell’intraprendente impresario e connoisseur culminanti nel 1909 in una grande tournée d’opera e di balletto dei Teatri Imperiali di Mosca e di San Pietroburgo, fu sentito come l’avvento di un nuovo tipo di teatro tout court, ben oltre i confini degli spettacoli di danza. Henri Ghéon, sulla Nouvelle Revue Française, aveva definito i Ballets russes «il sogno di Mallarmé», una nuova forma di opera d’arte totale.
L’età eroica della compagnia, rimasta attiva fino alla scomparsa di Diaghilev nel 1929, è concentrata in quella manciata di saisons russes a Parigi, tra il 1909 e il 1913, che hanno rappresentato una sorta di big bang delle nuove forme di spettacolo del XX secolo.
L’influsso di quella esperienza germinale si è riverberato in diversa misura su tutte le avanguardie artistiche del primo Novecento, proseguendo anche dopo la Guerra. La fame di Diaghilev di nuovi mezzi espressivi per mantenere il primato della modernità lo portava, infatti, a cercare sempre per i suoi spettacoli le menti più creative nell’ambito della pittura, della musica, del teatro, da Picasso a Natalia Goncharova, da Erik Satie ai giovani del gruppo dei Six, Milhaud e Poulenc.
Un’ampia raccolta di saggi e documenti, curata da Patrizia Veroli e Gianfranco Vinay, riassume in maniera dettagliata l’intera vicenda della cosmopolita compagnia e l’impatto di questa esperienza sulla cultura del Novecento (I Ballets Russes di Diaghilev tra storia e mito, ed. Accademia Nazionale di S. Cecilia, pp. 296, euro 70). Per la prima volta, nella pur ricca letteratura italiana sui movimenti artistici del XX secolo, si tenta di osservare in maniera globale e non parziale il fenomeno dei Ballets Russes, che nascevano dall’idea di trascendere l’arte di una singola disciplina aspirando a creare un linguaggio universale del corpo. Per questo, il sommo interprete delle utopie di Diaghilev è stato un artista sciamano come Vaclav Nizinskij, capace di trasformare qualunque spettacolo in un delirio espressivo d’impressionante potenza. I due curatori, ciascuno nella propria area di competenza, Veroli per la danza e Vinay per la musica, illustrano all’inizio il tema del lavoro, cogliendo i tratti essenziali della controversa miscela di elementi eterogenei che forma la peculiare estetica dell’impresa di Diaghilev.
Il mito dei Ballets Russes nasce soprattutto dall’istinto infallibile di un intellettuale della vecchia Russia come Diaghilev nel saper stare sempre un passo più avanti del suo tempo. I suoi spettacoli più riusciti, ma in fondo anche quelli meno fortunati, mostravano forme di linguaggio che il pubblico non sapeva ancora di desiderare. Il cosiddetto succès de scandale, il cui massimo archetipo resta la serata inaugurale del Sacre du printemps, rappresentava un elemento integrale dell’estetica di Diaghilev, che nutriva la propria visione artistica cercando sempre di sfidare le forme intossicate dal gusto del pubblico e di conseguenza morte o moribonde.
Oltre a Nizinskij, Diaghilev trovò sotto questo aspetto un altro formidabile alleato in Stravinskij, che proveniva dalla stessa humus e condivideva con lui quella strana miscela di attrazione e repulsione da vecchi russi per la cultura europea, divenuta dopo la Rivoluzione d’Ottobre il terrain vague su cui fondare la loro nuova esistenza da esuli.
I resti di Stravinskij, sopravvissuto oltre quarant’anni all’amico, riposano giustamente accanto alla tomba di Diaghilev nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia, l’unico luogo in tutto l’Occidente nel quale i due artisti potevano sentire un legame spirituale autentico con la patria perduta.
I contributi originali di eminenti studiosi approfondiscono poi specifici aspetti della figura di Diaghilev e del fenomeno dei Ballets Russes. Lo storico Jean-Michel Nectoux, per esempio, illustra la parte russa della biografia di Diaghilev, mettendo in luce i molteplici interessi artistici del giovane rampollo di una famiglia della bassa nobiltà di provincia e i suoi controversi rapporti con l’intelligencija ufficiale. Allo stesso modo Stephen D. Press della Wesleyan University, Illinois, uno studioso che sta dedicando lavori importanti alla storia del balletto russo, compie un’accurata ricognizione dei rapporti di Diaghilev con l’altro grande protagonista della musica russa del primo Novecento, Sergej Prokof’ev, sullo sfondo delle vicende politiche del nascente stato sovietico.
Altrettanto interessanti sono i contributi del russista e storico della danza Tim Scholl, di Stephanie Jordan dell’University di Roehampton e di José Sasportes, già ministro della cultura in Portogallo e uno dei più noti studiosi di storia della danza. Il volume inoltre è arricchito da numerose fotografie di scena e soprattutto dalla riproduzione in facsimile del supplemento della rivista Comoedia illustré, dedicato alla stagione 1913 dei Ballets Russes, dove si possono ammirare gli splendidi bozzetti di Léon Bakst per i costumi del Boris Godunov, le fotografie di Nizinskij e della Karsavina in divisa da tennis per il balletto Jeux di Debussy, le maquettes di Roerich per la Russia pagana del Sacre du printemps.
Il Sacre, epitome della sbalorditiva esperienza dei Ballets Russes, rimane in ogni caso, come ogni autentico capolavoro, al di là di una comprensione definitiva. Come nella storiella del pellegrino interrogato da Jung o da Freud, potremmo chiedere al mito del Sacre tanto «dove vai?» quanto «da dove vieni?», a seconda della prospettiva ermeneutica. La sua forza espressiva invece rimane indiscutibile. L’impressione profonda della vesna, della primavera russa, il disgelo improvviso dei lastroni di ghiaccio che imprigionano la terra, gli sciami di insetti che nascono nelle immense paludi: questa è l’autentica fonte poetica del Sacre di Diaghilev e di Stravinskij.
Le memorie del musicista sull’arrivo della primavera a San Pietroburgo sono parole di commovente incanto: l’odore di muffa del mantello di lana cotta inzuppato di pioggia, il sapore dei gamberi d’acqua dolce, il rumore delle ruote e lo schiocco della frusta dei carrettieri sul dorso dei cavalli sul Canale Krukov. Il mito della modernità ha un sapore antico.