Chi conosce il nome di Giacomo Balla lo associa immediatamente al futurismo, fosse anche soltanto per un automatismo della memoria di matrice scolastica. Per chi lo conosce così, la prima «sorpresa» della mostra Giacomo Balla: Designing the Future alla Estorick Collection di Londra (catalogo Silvana Editoriale) è l’incontro col Balla impressionista, che si rivela soprattutto in una serie di splendidi ritratti stile Belle Époque. Aveva in effetti quasi quarant’anni quando convergeva con Marinetti, di cinque anni più giovane di lui, ma capace di folgorarlo, fino a renderlo uno tra i futuristi più coerenti e incisivi, autore (con Boccioni, Carrà, Russolo e Severini) del Manifesto dei pittori futuristi del 1910, poi (con Depero) della Ricostruzione futurista dell’universo (1915), poi (da solo) del Manifesto del colore (1918).
Il ritorno al ritratto
Eppure l’iconoclasta innamorato del dinamismo, della velocità, dell’astrazione, dei fasci di luce e di colore, dello scoppio e della sorpresa è anche e soprattutto un notevole pittore figurativo, che dal ritratto era partito negli anni ottanta dell’Ottocento e al ritratto ritornava verso la metà degli anni trenta del Novecento. Qui è il fascino di questa mostra, piccola e concentrata, ma dall’impianto critico originale e fortissimo (grazie a Fabio Benzi, curatore della collezione Biagiotti Cigna, che restituisce un Balla un po’ meno mainstream e canonizzato: un assaggio lo aveva offerto, a febbraio, nella galleria romana Aleandri Arte Moderna): una sala dedicata al percorso di Balla, da maestro di Boccioni e Severini fino ad anticipatore di soluzioni alla Lichtenstein; una all’eclettismo della produzione, tra oggetti e tessuti, nel segno della Ricostruzione futurista dell’universo (ma non solo); e una a disegni, pastelli e tempere su carta e cartoncino. Cornice ideale, la Estorick Collection, con la sua collezione permanente di pittura delle avanguardie italiane di primo Novecento, luogo simbolo di un’italianità creativa ed energizzante nella capitale della finanza mondiale.
Si firmava già BALLA a lettere maiuscole prima di diventare FUTUR BALLA, come se la rotondità, sonora e semantica, del nome lo spingesse a riconsiderare sempre un mondo intero attraverso la pittura: col divisionismo superava l’impressionismo, col futurismo la tradizione, con l’astrattismo il realismo e col figurativismo il costruttivismo. Uno sguardo rivolto oltre, senza esitazioni, all’insegna di quel moderno come nuovo che era la parola d’ordine del suo tempo; ma anche drammaticamente contraddittorio, che è la sua forza, perché nel nuovo porta sempre la traccia di ciò che è venuto prima e nell’oltranzismo assimila la facies dell’antagonista.
La lezione di Muybridge
A segnare la continuità, ecco la seconda «sorpresa» della mostra, è la fotografia, che gli veniva dal padre, a stento conosciuto (lo perse a nove anni), ma forse assorbito più in profondità di quanto finora si sia voluto riconoscere: anche nel momento in cui, nel 1918, proclamava che «data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno», Balla confidava nell’interazione tra pittura e fotografia, non tanto per rappresentare, realisticamente, quanto per guardare in un altro modo, in profondità. Alla ricerca di un’altra verità, che non è il vero del reale, dei veristi e dei socialisti, il vero degli occhi, ma un vero filtrato, composto, artificiale, come dietro una macchina che ti costringe ad assumere un punto di vista, scegliere il fuoco, imporre la forma, istruire la composizione.
Artista della dispositio, Balla è continuamente alla ricerca di un ordine, che trova tanto nella Donna che cuce (1897 circa; in mostra), quand’era socialista, quanto nella simmetria del dinamismo futurista, quando aderiva al suo tempo (per cui non c’è bisogno di esempi), quanto nella chiacchierata della mondanità borghese, quando cominciava a recuperare le sue radici, a metà degli anni trenta (Parlano, 1934; in mostra). Forse non sarebbe piaciuto a chi nel ’13 mise in vendita tutti i suoi quadri proclamando «Balla è morto!», questo percorso all’insegna della costanza; ma, paradosso supremo, Balla è anche colui che riuscì a dare continuità a quel movimento, il futurismo, che s’identificava solo col cambiamento permanente, restandovi ancorato per quasi trent’anni.
La lezione di fotografi sperimentali come l’inglese Eadweard Muybridge, che usava camere multiple per catturare il movimento «a passo uno» (o stop-motion) , e il francese Etienne-Jules Marey, che sparava scatti a raffica su animali in movimento fino a produrre sequenze ai confini del cinematografo, non impronta solo l’analista del movimento, il teorico del dinamismo, l’autore delle iconiche serie delle Compenetrazioni iridescenti (due in mostra) e Velocità astratte, ma anche, appunto, il ritrattista, che alla fotografia chiedeva le possibilità dello sfuocato, del mosso e della sovrapposizione, per vedere in simultanea, nella pittura, ciò che l’occhio separa, come nel suggestivo orientalismo Nel patio del 1926 (in mostra).
Il nodo, come per tutti i suoi compagni di strada, è il fascismo: la mostra preferisce elegantemente glissare, fermandosi sulla soglia della sua adesione, ma lì Balla smarrisce la bussola e si ripiega su se stesso. Eppure negli anni dieci e venti, e questa è la terza «sorpresa», aveva pensato a uno sguardo totale che non imprigionasse la fantasia e reprimesse gli slanci: un mondo di vestiti, lampade, sedie e tavoli, fondato sulla luce (sempre piena), il colore (sempre puro) e la geometria (sempre euclidea), che culminava nel progetto di cameretta ideato per la figlia Elica in occasione del trasferimento ai Parioli. Animando le cose, sperimentando nuove tecniche e nuovi materiali, a metà strada tra Giacometti e Munari, Balla seguiva i principi della teosofia, secondo cui i sensi potevano rivelare le verità innate delle forme: sostanzialmente estraneo a tentazioni cubiste, attratto dagli insegnamenti di Johannes Lauweriks, vicino allo spiritismo di Carlo Ballatore e all’esoterismo di Julius Evola, voleva dare «scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile», non certo per portare l’immateriale nella materia, ma per oltrepassare la materia in una direzione mistica.
Fascismo e Tolstoj
Il sogno di un mondo energizzato dal movimento e dall’arte si traduceva presto nella realtà di una società omologata e imbecille, cui Balla diede il suo contributo di cassa di risonanza. Preferiamo però pensarlo davanti al suo Ritratto di Tolstoj (in mostra), un’impressionante interpretazione dello scrittore russo realizzata proprio nel momento in cui, intorno al 1911, Balla passava dal divisionismo (che portava un elemento di sensibilità sociale nella pittura di stampo impressionista) al futurismo (che era in quella fase aurorale soprattutto dinamismo): pennellate elettriche e diramate staccano il ritratto in primo piano dallo sfondo grigio-nero, dove gli aratri sulla terra e le nubi nel cielo sembrano rimandare ancora a un’ipotesi di realismo impegnato, mentre la scelta del bianco e nero conferisce alla figura di Tolstoj un’aura sacrale, una dimensione semievangelica. La compresenza di opzioni contrastanti colloca Balla in un orizzonte modernista, che lo rende molto più vicino alle esperienze coeve di un Pirandello o di uno Svevo di quanto una collocazione sul versante futurista puro potrebbe far pensare.
Grande giocoliere della parola, creatore di titoli folgoranti come Autocaffè (lo splendido autoritratto con caffè del 1929) e autore di testi teatrali paroliberisti tutti da riscoprire, da Palpavoce del 1914 (con Francesco Cangiullo) a Sconcertazione di stati d’animo del 1916, il Balla che questa mostra ha presentato è un po’ meno integralmente futurista e un po’ più sperimentale in altre direzioni, un po’ meno ideologico e un po’ più ironico, un po’ meno padrone e un po’ più ascoltatore: ritrattista ed eclettico, merita un’intercettazione a tutto campo, senza facili etichette e inutili ismi