Rodi nell’agosto del 2020 mostra la sua follia: strade deserte di persone e affollate di negozi di paccottiglia. Venditori affranti chiacchierano tra loro ad alta voce e, con scarsa convinzione, cercano di imbonire i rari turisti, che a loro volta si domandano come faranno a mantenere tutta quella gente con la manciata di euro che hanno in tasca. E in questa calma forzosa l’occhio riesce a intravedere l’aspetto dei magazzini, coperti a volta e sovrastati da una piccola abitazione, ora occultati da espositori, pensiline, tettoie, ombrelloni.

TUTT’ALTRO RISPETTO al gigantesco falso urbano della «città dei cavalieri», tirato su durante l’occupazione italiana. Un falso che, però, a cento anni di distanza inizia a meritare esso stesso di essere apprezzato come prodotto genuino e originale.
Da qualche immagine e da frammenti consunti di tufo giallo, sono state edificate intere strade, chiese, palazzi, fortezze; il tutto sostenuto da una foga creativa spesso delirante ma non priva di coerenza. Nell’imbuto di Rodi, da un lato si assiste quasi increduli al mancato appuntamento con la modernità, specialmente nel pensiero, e dall’altro si tocca con mano quella tardiva fioritura di un artigianato creativo che ancora oggi mettiamo tra i nostri (pochi) meriti.

AL VERTICE di tutto questo sta il Palazzo del Gran Maestro, progettato di fatto dall’architetto Vittorio Mesturino. In uno scenario indubbiamente esaltante e che, di volta in volta, si incrocia con il cinema peplum, il culto fascista del potere, la pomposità del quadrunviro De Vecchi (odioso governatore dell’Egeo dal 1936 a 1940) si cammina, ambiente per ambiente, su alcuni mosaici che la missione archeologica italiana ha scavato nell’isola di Kos, e qui utilizzati come un tappeto di pregio, buttato lì per stupire gli ospiti. In tutte le immersioni in una qualche forma di pazzia, e l’architettura spesso la prevede, c’è una certa voluttà nel lasciarsi trasportare dai «ragionamenti» dell’architetto. Come in un gioco dell’infanzia, dove l’operare «come se» si alimenta di una dinamica tutta interna che rapidamente diventa la gioia e la prigione del lavoro.
Entro questo scenario è inserita la bella mostra dei cinquantacinque disegni dei mosaici romani di Kos, conservati nella Scuola archeologica italiana di Atene, eseguiti da Hermes Balducci (1904-1938), a cura di Maria Mihailidou e Emanuele Papi.

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UNA MOSTRA PERFETTA per quegli ambienti e per quella città: meravigliosi acquarelli che restituiscono, tessera per tessera, i mosaici ritrovati negli scavi eseguiti dopo il terremoto del 1933. La precisione del segno, l’ombra di ogni tessera, il tono trasparente delle parti ricostruite, le scritte fanno pensare ad una di quelle opere di iconografia elencativa stampate nel XIX secolo. Poi qualche tratto di matita attira l’attenzione e appare, con meraviglia, l’idea che li sostiene: l’attività del disegno, prima di essere l’esatta riproduzione dell’aspetto esteriore dell’oggetto, racconta la sua procedura realizzativa: tessera dopo tessera.
Il disegno come metodo non solo di documentazione del pezzo, ma sopratutto di conoscenza e, infine, di immedesimazione nella procedura e nel metodo. Attraverso il disegno si diventa «come se» fossimo il mosaicista, incorporandone anche obblighi, limiti e programmi figurativi.
Il lavoro di Balducci ci fa intuire come, in quei rilievi eseguiti a mano, si concretizzi l’aspirazione del disegno alla pari dignità con lo studio testuale, che, nel corso del tempo, ha assunto un prestigio quasi esclusivo. E ci ricordano che le opere, d’arte e non, sono intelletto realizzato in una forma attraverso una tecnica; e ridurre forma e tecnica ad ancelle rischia di farci perdere la molteplicità di significati che l’opera produce. È la forma che attraversa il tempo e che, con la sua ambigua spugnosità, trasporta, modifica, adatta i contenuti.

I RILIEVI DI BALDUCCI oggi possono apparire desueti, forse sostituibili da una scansione digitale; ma quello che comunicano è l’impareggiabile livello di conoscenza che l’autore realizza attraverso il metodo del rilievo manuale; cosa assai diversa della semplice disponibilità di un dato.
Balducci, dopo una carriera universitaria di una rapidità oggi impensabile (assistente a 21 anni e professore incaricato a 29 anni) morirà di tifo a soli 34 anni. E a proposito del disegno Navone e Cipriani scrivevano già nel 1794, nel Nuovo metodo, una raccolta di rilievi di architetture, con piante, prospetti, sezioni e dettagli: «Lo studio degli architetti esser dee di teoria, e di pratica; il primo è a base a secondo (…) Per divenire adunque fra loro eccellente, leggere e disegnare non basta; è necessario di più fabbricare (…). Ma l’occasione di fabbricare è rara; e l’essenziale di sì bello studio va perciò le più volte o difettoso, o mal sicuro. Come perfezionarlo? Su gli esemplari. Sì lo studio degli originali bene eseguiti è senza dubbio il solo, che si avvicina allo studio di ben eseguirli».