Poco o nulla si sapeva finora della preistoria di Raffaello Baldini detto Lello (1924-2005) se non che dopo l’apprendistato nella natìa Santarcangelo (al «Circolo del giudizio», con Tonino Guerra, Nino Pedretti, Gianni Fucci, nume tutelare il grande antichista Augusto Campana) egli si fosse trasferito a Milano per fare il giornalista, dal ’68 a «Panorama», mestiere che peraltro esercitava con uno scrupolo professionale almeno pari al riserbo con cui dissimulava o, stando alla parola dei colleghi addirittura nascondeva, una produzione poetica emersa molto tardi (il primo fascicolo in santarcangiolese, E’ solitèri, esce da Galeati di Imola solo nel 1976) ma sommatasi poi in appena un ventennio con le altre quattro raccolte (La nàiva, Furistìr, Ad nòta e Intercity) che si dispongono fra il 1982 e il 2003 accompagnate dal riconoscimento della grande critica, da Dante Isella a Pier Vincenzo Mengaldo e Gian Luigi Beccaria.

Chi specialmente nei suoi ultimi anni ascoltava leggere Baldini col profluvio di una lingua tanto remota dal dolciastro romagnolo della convenzione, così ruvida e ispida nella forma della monodìa ovvero della polifonia dialogica, chi lo osservava gestire (grisaglia e maglione a girocollo, capelli candidi e occhiali di celluloide nera) pensava semmai a un connubio di Buster Keaton e Samuel Beckett per la fissità davvero ieratica della postura e riandava a una umanità perduta e irredenta, alle mille voci di vite originali proprio in quanto ordinarie e trapassate in minime avventure esistenziali, nel silenzio della pura subalternità al quotidiano e ai suoi cicli elementari. Insomma lo spettatore di Baldini, prima che il suo lettore, poteva indovinare la modernità degli umani cui il poeta prestava la sua voce ma soltanto per antifrasi o per paradosso. Eppure è un fatto che quelle sue voci tardive traevano senso e scaturigine (si potrebbe dire ne fossero entità riscattate o redivive) proprio nell’absolument moderne e dunque nel contesto del neocapitalismo che intanto le rendeva obsolete o le stava cancellando.

Lo dice ora con l’evidenza dei relativi testi Prima del dialetto (Raffaelli editore, pp. 309, s.i.p), un volume ottimamente curato da Tiziana Mattioli insieme con Ennio Grassi che raccoglie articoli, interventi e reportages del Baldini salito trentenne a Milano per collaborare alle più singolari testate della neonata società affluente, quali «Settimo giorno», «Imago», «Il gatto selvatico» e «Rivista Pirelli». Lì i suoi interlocutori sono per esempio Arrigo Castellani e Vittorio Sereni, i suoi collaboratori e compagni di via si chiamano fra gli altri Michele Provinciali, Pino Tovaglia, Ugo Mulas, Mario Dondero, Fulvio Bianconi. Reduce da una tesi su Pascal discussa a Bologna nel ’49 e da una breve esperienza di insegnamento, Baldini porta a Milano la nettezza del suo sguardo che intanto viene inventariando l’universo delle merci con l’annesso immaginario grafico ma porta anche la sua voce di scrittore che da subito, nota Mattioli, è una voce «forte, nutrita, lucida». Che si occupi di tempo libero, di produzione industriale, di sport o di vertenze politico-sindacali, lo sguardo di Baldini è sempre fermo senza essere freddo, come di chi riceva e annoti i fatti riservandosi uno spazio di meditazione e di valutazione il cui metro è nient’altro che l’umanità e ciò vuol dire, più semplicemente, un equilibrio, una lucidità che il riverbero suadente delle merci e dei neon che le abbagliano non deve mai accecare né in chi scrive né in chi legge. Prova ne sia il libro che conclude il suo apprendistato, ed è il recupero essenziale di Prima del dialetto, qualcosa tra il pastiche satirico e il romanzo epistolare, Autotem che Baldini pubblica da Bompiani nel ’67 con un risvolto anonimo – ora fondatamente attribuito a Umberto Eco – dove il totem dell’automobile e del suo utilizzo di massa viene rinviato a «un’unica immagine archetipa, enormemente cattiva, ingombrante, penetrante, laceratamente rumorosa, dilagante, soffocante». Sono ventinove lettere che l’autore immagina ricevute dal direttore di una rivista e argomento esclusivo ne è l’automobile, il suo uso e abuso, la sua fenomenologia, il suo feticismo, il suo vero e proprio culto. Nulla appare estraneo a questa neo-divinità salvifica o mortifera cui si rivolgono, in uno spettacolare décalage di stili e di toni, operai e impiegati, casalinghe e detenuti, rispettabili professionisti e pazzi scatenati. Sia pure dedotta da un italiano di base, c’è già tutta la partitura polifonica di Baldini, sia del poeta che scriverà sia di colui che leggerà a teatro le sue stesse poesie.

Non per caso si intitola Raffaello Baldini Essere voce e gesto («Il parlar franco», n. 15-16, Pier Giorgio Pazzini editore, pp. 178, euro 25,00) un ricco volume monografico, a cura di Gualtiero De Santi e Rita Giannini, pensato per il decennale della scomparsa del poeta di Santarcangelo. Oltre alle pagine di alcuni studiosi benemeriti, da Mengaldo (sua è l’immagine delle «immediate agnizioni, o ferite» che danno ai monologhi «quell’inconfondibile aspetto di improvvisi») a Clelia Martignoni (cui si deve Per non finire. Sulla poesia di Raffaello Baldini, Campanotto 2004), vi si allineano versi, ricordi e indagini critiche di studiosi e poeti, come dell’amico di sempre Gianni Fucci, di Maria Lenti, di Manuel Cohen, della stessa Tiziana Mattioli, in vista di una idea della poesia che trasforma i fatti e le persone in scrittura laddove, nota De Santi, «vedere o ascoltare una cosa significa saperla raggiungere». Di particolare interesse, al riguardo, è la sezione dedicata al rapporto di Baldini con il teatro e alle quattro partiture da lui firmate nel decennio terminale, tre in dialetto romagnolo o si dica pure in una lingua contaminata (Zitti tutti, Carta canta, La Fondazione) e una in italiano, In fondo a destra, del 2002, messa in scena da Sandro Lombardi per la regia di Federico Tiezzi. Insieme con gli studi, fra gli altri, di Fabio Bruschi, Renata Molinari e Silvio Castiglioni, qui è notevole la testimonianza dell’attore Ivano Marescotti, il più fedele tra gli esecutori e interlocutori teatrali del maestro: «Baldini diceva col dialetto non si può parlare di Dio, semplicemente perché non ci sono i termini tecnici, grammaticali, per esprimere concetti teologici, filosofici. Ma, diceva Baldini, col dialetto si può parlare con Dio. E qui senti la intrinseca profondità del linguaggio, per quanto rozzo e dialettale, che assurge a tali altezze. Ma lui ribaltava subito l’effetto e metteva il concetto e la pratica con i piedi per terra. Diceva andate nell’osteria dove si gioca a carte e guardate i due che perdono. Loro con Dio hanno un rapporto diretto e un linguaggio alquanto esplicito… Tutto è dissacrato e contemporaneamente innalzato al massimo livello infondendo il respiro universale della sua alta poesia alla banalità della vita quotidiana».

Sono le mille voci che stormiscono, configgono e si richiamano senza pace nella voce medesima del poeta Lello Baldini, sono gli apici di una densità fonica e sintattica che, a cateratta aperta nell’ingorgo delle sibilanti e delle affricate, esige un corpo e una voce, insomma una fisica teatralizzazione. Ma sono sempre, pur sempre, le voci di uomini rimasti uomini con le loro minime vite, i loro accenti singolari e le loro innocue manìe. Uomini estranei al feticismo della società affluente, gli scampati all’Autotem e al neocapitalismo.