Il 9 ottobre 1982, ultimo giorno della festa di Sukkot, la gente della comunità ebraica sta uscendo dalla sinagoga di Roma. Mancano cinque minuti a mezzogiorno. Un commando palestinese apre il fuoco. Muore Stefano Gaj Taché, due anni, i feriti sono 37. Spazi aperti fino ad allora, le sinagoghe italiane vengono poste sotto stretta sorveglianza. Il cancello della sinagoga di Firenze è tornato ad «aprirlo», nel 2013, Enrico Fink, responsabile culturale della Comunità. Musicista che coltiva le radici sonore di appartenenza, ma fa del rapporto con le altre culture la ragion d’essere del proprio lavoro, Fink ha dato vita alla rassegna estiva Balagan Cafè.
Il termine Balagan, nella Russia del ’600 e ’700, indicava un teatro di piazza provvisorio, adibito a rappresentazioni popolari. Piazza fiorentina è divenuto il giardino della sinagoga, ospitando (quest’anno fino al 4 settembre, ogni giovedì) band, compagnie teatrali, scrittori, e proponendo cibi kosher dal mondo. Nel 2013 il successo aveva superato ogni previsione: una media di ottocento persone a sera, che entravano, ascoltavano, discutevano, cenavano, e così scoprivano una dimensione «scomparsa» per due decenni.
Enrico Fink, in questo agosto 2014, racconta di un’idea che oggi si ritrova a fare i conti con l’ennesima e tragica puntata del conflitto eternamente in corso sulla Striscia di Gaza. Sottofondo alle sue parole la musica della Baro Drom Orkestar, note balcaniche dopo che qui si sono già ascoltate quelle peruviane, georgiane, klez, del Vicino Oriente. «Credo che la vita di ogni comunità ebraica abbia bisogno di uno scambio continuo con la città, di cancelli spalancati. Altrimenti rischia di chiudersi in se stessa e di non andare da nessuna parte. Firenze ne è una piccola prova. Il successo dello scorso anno, a fronte di altrettanti iscritti alla Comunità, dimostra che nello spazio della sinagoga sono arrivate molte altre e diverse persone».
Dietro il cancello, un mondo. «Certo. Un mondo, ed è il filo conduttore del Balagan Cafè, che deve sempre più dialogare in un’Italia per fortuna non più monoculturale; ragionare sui meccanismi di costruzione di una società fatta di tanti pezzi diversi; superare i limiti del meltingpot che pretendeva un’assimilazione totale rinunciando alle proprie peculiarità e origini. Sta nascendo qualcosa di diverso, di cui gli ebrei italiani sono stati protagonisti in varie fasi storiche».
Fink cita la partecipazione al Risorgimento, la segregazione nei ghetti, l’integrazione e le leggi razziali, la lotta di Liberazione. E prosegue: «La nostra storia non può che condurre al dialogo, a Firenze molto forte specie con la comunità islamica; a una vicinanza fraterna nella differenza. Lo ribadiamo sovente con l’imam. La pensiamo diversamente su tante cose, ma possiamo rimanere insieme sapendo di avere visioni lontane anche sulla politica, senza che ciò costituisca un ostacolo. I bambini delle scuole vanno a visitare la ‘quasi’ moschea (noi siamo tra i primi sostenitori dell’importanza di costruire una vera moschea cittadina) e la sinagoga, seguono un laboratorio di alfabeto arabo e vengono a fare il pane ebraico del sabato».
Balagan 2014 ha dovuto confrontarsi con una nuova guerra di Gaza. «Balagan è un luogo difficile da vivere in momenti come questi. Perché un conflitto ha il potere di tirare fuori il lato peggiore delle persone che lo vivono a distanza, di ostacolare il dialogo. C’è stato chi ci ha boicottato dicendo che festeggiavamo mentre Israele bombardava i civili, altri che hanno rinunciato a venire per paura, e altri ancora hanno preferito stare tra di loro. A un certo punto pensavamo di chiudere. E invece lo spazio ha continuato a vivere. Da qui si esce portando con sé un messaggio di convivenza. Un ragazzo israeliano ha detto due settimane fa che bisogna lasciare aperta la porta. Finché sarà così la gente potrà entrare e cercare di capire».