La storia si ripete. Dopo il gran premio del Bahrain, anche quello di Baku sta scatenando polemiche contro il circo della Formula Uno, accusato di anteporre il dio denaro alla tutela dei diritti umani. Ma il patron Bernie Ecclestone non sembra farsene un cruccio e tira dritto per la sua strada. Così questa domenica la capitale dell’Azerbaigian si appresta a ospitare per la prima volta nella storia una gara del più celebrato e ricco tra gli sport motoristici.

La coalizione Sport for Rights si è già fatta sentire chiedendo a Ecclestone, per bocca della sua portavoce Rebecca Vincent, di prendere posizione sulle violazioni dei diritti civili in atto nel Paese caucasico. «La Formula Uno può prendere posizione in maniera forte a favore della popolazione azera, invece di trarre solo profitto e aiutare delle persone corrotte», ha dichiarato Vincent.

Il riferimento nemmeno troppo velato è alla famiglia Aliyev e ai suoi sodali, che a Baku governano ininterrottamente dalla metà degli anni Novanta. Prima è stato il turno di papà Heydar – in realtà già capo del Partito Comunista azero e del Politburo di Mosca ai tempi dell’Unione Sovietica – poi del figlio Ilham, che occupa la carica di presidente dal 2003. Pazienza che l’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, abbia nel tempo ripetutamente bollato come truccate le elezioni tenutesi da queste parti.

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 «I diritti umani in Azerbaigian? Io ho la coscienza a posto», ha risposto Ecclestone alle associazioni, «nel momento in cui qualcuno mi dice quali sono i diritti umani allora potremo verificare quando e dove vengono applicati. Per quanto ci riguarda non ci sono corse nel Paese dove ci sia corruzione», ha aggiunto. Meglio magnificare la spettacolarità del circuito cittadino (oltre sei chilometri di percorso) che farà conoscere a tutto il mondo le bellezze di Baku, la Montecarlo del Caucaso.

Human Rights Watch e Amnesty International denunciano che sono ancora decine i prigionieri politici nelle carceri azere, condannati sulla base di accuse fasulle. In realtà di recente qualcosa si è finalmente smosso. Dalla fine del 2015 sono stati liberati una ventina di «dissidenti». Prima Leyla e Arif Yunus, in pericolo di vita per le loro precarie condizioni di salute e l’assenza di cure in carcere, poi Rasul Jafarov, Intigam Aliyev e da pochissimi giorni Khadija Ismayilova. Gli Yunus sono attivisti di lunga data (Leyla è stata insignita della Legion d’Onore in Francia), mentre Aliyev è un rinomato avvocato per i diritti umani e Jafarov è stato il promotore di Sing for Democracy, la campagna sull’Eurovision del 2012, ovvero la prima grande vetrina internazionale per l’Azerbaigian, e successivamente di Sport for Rights, iniziativa lanciata in vista dei Giochi Europei che gli è costata l’incarcerazione. Per costruire la sala concerti dove si è svolto l’Eurovision 2012, la Crystal Hall, fu sventrato un quartiere sul lungo mare di Baku, senza curarsi troppo del destino dei residenti.

Se possibile ancora più scomoda è stata per il governo azero la giornalista investigativa Khadija Ismayilova. Le sue inchieste hanno fatto rumore, svelando le «manovre» tutt’altro che limpide della famiglia al potere.

Poche settimane prima del suo arresto, avvenuto nel dicembre del 2014, in un dettagliato articolo aveva rivelato come la famiglia presidenziale controlli di fatto l’80 per cento del mercato telefonico del Paese avvalendosi di società registrate nei paradisi fiscali. Un reportage del 2012 aveva invece svelato come la proprietà della principale miniera d’oro del Paese fosse in capo alle due figlie di Aliyev, Leyla e Arzu. Il seguito della ricerca, portato avanti dai collaboratori di Khadija, è stato pubblicato dalla rete di giornalismo investigativo Occrp che proprio nei Panama Papers ha individuato le tre società registrate nel Paese centro americano (Londex Resources, S.A, Willy and Meyris S.A. e Fargate Mining Corporation) intestate alle sorelle Aliyev.

Così come per i due avvocati, anche a Ismayilova la pena è stata ridotta e sospesa. Sono sì liberi, ma non possono lasciare il Paese.

Decisiva per questo gesto d’apertura è stata la pressione esercitata in particolare dagli Stati Uniti. Un segnale che il regime scricchiola? Di certo l’economia azera è in difficoltà. Con un export che dipende per il 95 per cento dallo sfruttamento dalle ricche riserve petrolifere e di gas presenti onshore e nei fondali del Mar Caspio, il crollo del prezzo del petrolio si è fatto sentire. Nell’arco di un anno e mezzo la moneta locale, il manat, è stata svalutata ben due volte, e oggi il tasso variabile causa grandi incertezze interne. Poi c’è la bolla edilizia – quando abbiamo visitato Baku lo scorso anno i cantieri erano pressoché ovunque – che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, dando la stura ad altre proteste dopo quelle che nel corso degli anni sono state sempre represse in maniera violenta.

Per dare una ritoccata a un’immagine un po’ sfocata casca a fagiolo il Gran Premio, i cui diritti sarebbero costati 150 milioni di dollari per tre anni. Mandato in archivio l’Eurovision del 2012, il governo ha deciso di puntare forte sugli eventi sportivi. Nel 2015 a Baku si sono svolti i primi Giochi Europei, una rassegna di importanza secondaria dal punto di vista sportivo, ma per cui l’esecutivo Aliyev ha prodotto uno sforzo enorme.

Hanno visto così la luce varie strutture avveniristiche, tra cui lo Stadio Olimpico. Costo stimato – perché di cifre ufficiali gli azeri non ne hanno fornite – circa 8 miliardi di euro. Solo un miliardo in meno del conto finale per i Giochi di Londra 2012. L’Olimpico tornerà utile nel 2020, quando i Campionati Europei di calcio itineranti voluti dall’ormai caduto in disgrazia Michel Platini toccheranno anche l’Azerbaigian.

Lo sport washing va di pari passo con la caviar diplomacy. Quella fatta anche di gesti di generosità non proprio disinteressata, come il milione di euro «regalato» dal presidente Aliyev alla città di Roma durante la sua visita nella primavera del 2014 per gli scavi archeologici nell’area del foro.

Già, la relazione Italia-Azerbaigian. L’ex repubblica dell’Urss è il Paese al mondo che ci fornisce più petrolio. Noi compriamo da Baku il 17,1% dell’oro nero necessario per il nostro fabbisogno nazionale. Il petrolio arriva in buona parte dai giacimenti offshore di Azeri-Chirag-Guneshli, che da solo conta per il 70% delle riserve di greggio e il 75% della produzione dell’Azerbaigian. L’Italia è il primo partner commerciale di Baku, dal momento che assorbe circa il 20% delle esportazioni azere.

Ma sempre dall’Azerbaigian, precisamente dal giacimento of shore di Shah Deniz, dovrebbe arrivare anche il gas del Trans Adriatic Pipeline (Tap), segmento finale del lungo serpentone chiamato Corridoio Sud del Gas.

Una mega opera che, partendo da Baku, sarà lunga oltre 3.500 chilometri, avrà una portata di 10 miliardi di metri cubici l’anno – espandibile a 20 – e costerà circa 45 miliardi di euro.

Il progetto costituisce la pietra angolare delle strategie energetiche europee, che puntano forte sul gas dell’Azerbaigian in nome di un presunto affrancamento dalla dipendenza dalla Russia, ma attualmente è in fase di stallo. In Salento, dove è previsto che approdi il Tap, l’opposizione popolare e istituzionale è fortissima e i lavori, che in teoria sarebbero dovuti partire entro lo scorso 17 maggio, non sono praticamente mai iniziati. In Grecia e Albania si è solamente iniziato a preparare l’accesso ai cantieri, mentre dalla Svizzera i manager di Tap hanno bussato ripetute volte alle porte di Bruxelles e Lussemburgo alla ricerca di finanziamenti per coprire l’avvio della costruzione. Sì, perché per quanto «privata», è chiaro che questa grande opera s’ha da fare solo se la Commissione europea e i governi ne coprono costi e garanzie.

Tornando alla Formula Uno, è abbastanza scontato che domenica, più che tifare Ferrari, gli esponenti del comitato No Tap e molti altri in giro per il mondo saranno occupati a denunciare la preoccupante situazione dei diritti umani in Azerbaigian.
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