Sedici anni fa Mohammed Bakri varcava di nascosto i «confini» chiusi del campo profughi palestinese di Jenin, in Cisgiordania, per filmare la devastazione lasciata dall’operazione militare israeliana Scudo difensivo, in seguito alla quale la città è stata tagliata fuori dal mondo per settimane. «All’epoca ero considerato un uomo di pace, che parlava della possibilità di vivere insieme senza occupazione. Credevo che quel film avrebbe potuto cambiare le cose – racconta Bakri – Ero molto ingenuo, ma non avrei mai immaginato le reali conseguenze di quella scelta».

Jenin Jenin – questo il titolo del documentario nato dalle immagini «clandestine» di Bakri – è stato proibito in Israele, ha fatto fatica a circolare nel mondo (ma vinse il Festival di Cartagine dello stesso anno) e poco dopo cinque soldati israeliani che avevano preso parte all’operazione militare a Jenin hanno fatto causa a Bakri per vilipendio e diffamazione.

Nel 2006 la Corte Suprema israeliana ha assolto l’attore e regista palestinese, denunciato però ancora una volta – a distanza di dieci anni – da un altro soldato. Il processo comincerà il prossimo gennaio, ma l’appello #IoStoConBakri lanciato da Assopace Palestina ha già raccolto le adesioni di molti dei suoi colleghi italiani – da Bertolucci a Martone e Mastandrea – e presto verrà «aperto» alle firme di tutti, per poi venire consegnato alle autorità israeliane con la speranza che possa fare una differenza.

Per questo ora Bakri è in Italia con suoi film – Jenin Jenin e Da quando te ne sei andato (2005), un dialogo immaginario con lo scrittore palestinese scomparso Emile Habibi – in un tour attraverso iniziato ieri a Roma, al Cinema Nuovo Aquila, dove ha incontrato il pubblico insieme alla presidente di Assopace Luisa Morgantini, Daniele Vicari e Saverio Costanzo. Nei prossimi giorni Bakri sarà a Napoli, Brescia, Bologna, Milano, Venezia e Torino.

Nel 2006 è stato assolto, come mai questa nuova denuncia?

Nel primo processo la Corte Suprema ha deciso che i film costituiva una calunnia ma che questa non aveva importanza perché i cinque soldati che mi hanno fatto causa non compaiono mai. Una sentenza che non mi è piaciuta: non credo si possa parlare di calunnia, ho solo mostrato il lato nascosto di quella vicenda. Ora però hanno trovato un altro soldato che dice di essersi riconosciuto nel film, e per legge ha diritto a farmi causa. Non so neanche se appare davvero: si vede da lontano e con una telecamera non professionale. Non penso possa provare di essere quella persona. Ma mi ha fatto causa per due milioni e seicentosettantamila shekel (oltre seicentomila euro).

In Israele il suo film è stato censurato ma ha avuto problemi a essere mostrato in tutto il mondo. Arte che aveva acquistato i diritti per la Francia non l’ha mai trasmesso.

Mi hanno chiamato per dirmi che avevano annullato la programmazione con una spiegazione molto vaga: parlavano di problemi in Francia e in Europa con il mondo arabo ma erano scuse poco credibili. É evidente che è stata una scelta dettata dalle pressioni di Israele.

Come è possibile che un paese che si definisce democratico non consenta la libertà d’espressione non solo all’interno dei propri confini, ma cercando anche di influenzare le scelte degli altri stati?

Dire che Israele è un paese democratico è assurdo: la democrazia non dovrebbe avere un prezzo, in un paese libero si deve poter dire ciò che si vuole. In alcuni posti è un gesto per il quale si può morire, in altri si può finire in prigione – in Israele si può venire distrutti, come è successo a me. Mi hanno dichiarato guerra fin dal primo film in cui ho recitato, Hanna K. di Costa-Gavras: quando uscì nel 1983 il governo inoltrò una dichiarazione a tutte le ambasciate e Istituti di cultura israeliani in giro per i mondo, in cui si sosteneva che Hanna K. era una film antisemita. Questo perché parlava dei diritti dei palestinesi: è la semplice storia di un uomo che torna in Palestina, vuole la sua casa e per questo viene accusato di essere un terrorista. La stessa cosa sta ora succedendo a me – è bastato raccontare la storia degli abitanti innocenti di Jenin.

Ha detto di aver deciso di girare «Jenin Jenin» quando lei stesso è stato attaccato da un soldato israeliano in una manifestazione per la pace.

Quel soldato ha mirato precisamente a me perché sono un attore famoso e mi ha riconosciuto, dopo avermi visto è sceso dalla macchina e ha sparato: un’amica che era con me è stata ferita e ha perso la mano e l’uso del braccio. È stato questo che mi ha spinto a filmare a Jenin, e il mio crimine è stato precisamente riprendere quello che vedevo davanti ai miei occhi. Ciò che volevo dire con quel film è molto semplice: ogni intervento militare israeliano a Gaza o in Cisgiordania rappresenta una punizione «totale», per tutti. Se per esempio un palestinese decide di farsi saltare in aria in Israele – una forma di lotta che non approvo, perché porta via con sé altre vite – perché devono pagare anche i suoi genitori, i fratelli, i figli, i vicini? L’esercito ha attaccato l’intera comunità di Jenin, che ha dovuto soffrire per il solo fatto di essere palestinese. Ma Israele non vuole che io dica questo, lì pochissime persone hanno visto il mio film, anche se tutti lo conoscono: sono stato etichettato come un bugiardo, un manipolatore, un antisemita. Anche i miei amici e colleghi israeliani mi hanno abbandonato, e le associazioni di attori hanno rifiutato di aiutarmi per paura delle conseguenze. Una decina di anni fa un amico che lavora in una fondazione per combattere il cancro mi ha contattato affinché comparissi in una loro campagna di prevenzione, e io sono stato ben felice di accettare quel lavoro in forma del tutto gratuita. Ma dopo che sui giornali è stato scritto che sarei stato lo sponsor della campagna il mio amico mi ha chiamato: il governo aveva imposto la mia rimozione, pena il ritiro dei fondi. Questo è il genere di persecuzioni a cui sono sottoposto, e lo stesso vale per la mia famiglia: i miei figli non possono lavorare, né spostarsi liberamente.

Lo scorso luglio la Knesset ha approvato una legge che definisce Israele uno stato nazione ebraico.

Non mi ha sorpreso perché nella mia esperienza è sempre stato così. Se fossi un ebreo israeliano non potrebbero attaccarmi in questo modo: lo fanno perché sono palestinese. Il mio sangue non è rosso come il loro.

A sedici anni da «Jenin Jenin» la situazione in Palestina è peggiorata. In che modo il cinema può essere uno strumento di lotta?

Esiste un detto ebraico piuttosto razzista: colui che salva una singola anima di Israele ha salvato il mondo intero. Vorrei riadattarlo: chi salva una sola anima di questo pianeta ha salvato il mondo intero. Oggi pochi israeliani conoscono la realtà dei fatti – ma anche se poche, queste persone esistono. Credo quindi che lo scopo del mio lavoro sia quello di renderle tante. Probabilmente non assisterò a quel momento perché la vita è breve, ma forse un giorno mi verrà riconosciuto di essere solo una persona che ha sognato una vita diversa, che potesse essere vissuta da tutti con gli stessi diritti e senza occupazione.