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Bàino, il gorgo del presente nel sonetto citazionista

Bàino, il gorgo del presente nel sonetto citazionistaSlim Aarons, Laura Hawk tra le antiche rovine di Paestum,1984

Poesia italiana Libro affilato, lieve nelle grazie, ironico, sedotto dal femminile, dalle arti visive e dalla musica: «Prova d’inchiostro e altri sonetti», per Aragno

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 18 febbraio 2018

Nasce «dal bisogno della mediazione tecnica, della probità artigianale» il nuovo libro in versi di Mariano Bàino, Prova d’inchiostro e altri sonetti (Nino Aragno Editore, pp. 86, € 12,00). Ma in quel bisogno – insopprimibile in ogni espressione, o meglio in ogni vero lavoro d’arte – non si esaurisce.
Il libro ha ricchezza tematica e artigli stilistici che appagano i lettori del Bàino poeta dopo numerosi testi o «laboratori» di prosa (ancora la «probità» dell’Autore). Chi conosca la sua scrittura, i mutevoli profili che negli anni ha assunto, le funamboliche mescidazioni linguistiche, le trafitture aforistiche, le riscritture pinocchiesche, gli avanzi e i lidi solitari che ha praticato, le carte (e i tarocchi) che ha sparigliato, e le patagonie che ha percorso, non resterà sorpreso da un libro che, impostasi una contrainte, con questa si mette in tensione, misurando la propria capacità sperimentale nel rispetto della «gabbia». La forma sonetto d’altro canto, solida, attrattiva, sfidante com’è da secoli, ben si presta proprio alla pluralità, serissima e ludica, della sperimentazione. Bàino (Napoli, 1953), il cui libro d’esordio, Camera iperbarica (’83) per le edizioni «Tam Tam» di Adriano Spatola, porta il felice stigma di un’infrazione alla poesia lineare o gutenberghiana, aveva già ceduto al fascino del sonetto traducendo Góngora in dialetto napoletano in un libro della fine degli Ottanta, Ônne ’e terra (’94). (Libro prefato, sia detto per confermarne corposità linguistica e sollecitazioni stilistiche, da Clelia Martignoni).
Il rapporto con parola e ritmo insieme, sentiti entrambi nella loro sostanza materica, nelle declinazioni sillabiche, in battere e levare, negli attriti rimici, non ha mai abbandonato la scrittura di Bàino: accanto alla prosa, in modo «carsico», stando alle sue dichiarazioni, ha continuato a far scorrere la vena della poesia. Quindici anni di lavoro sui sonetti danno oggi un libro affilato, lieve nelle grazie, elegante, ironico, non privo di amarezze, vivido di sarcasmo e indignazione, sedotto dal femminile, dalle arti visive e dalla musica al medesimo tempo e nei rispettivi modi (che mirabilmente si fondono in uno splendido tutt’uno), e certo seduttivo. Nel senso, beninteso, in cui possono essere seduttive certe efficientissime trappole, certi strumenti allegorici – primo tra tutti il vincolo metrico con la climax di una corona di sonetti di settenari, veneziano carnevale minore, tra campari ondosi, canali iridati, «acchiappafantasmi / o leucociti», e maschere (del vivere), e poi le molteplici parole in rima – che sul nostro presente rovinoso e culturalmente impoverito fanno scattare la morsa critica.
Trasparente, infatti, è l’apertura del libro sull’«urlo d’animale» del vagabondo addormentato nella «calda immondizia» e finito «in fondo all’infernale / compattatrice»: negazione delle sorti magnifiche e dell’umanità progressiva. Limen del globale, violento e inane «tritarifiuti» in cui è ridotto il nostro mondo, raffreddato da un gelo d’inferi stilisticamente rilevato da certe tramature foniche in «F», da rimanti aspri e polisillabici, dalla sequenza di rime dell’ultima terzina culminante nell’abbraccio semantico infernale : animale. Meno incline alla pur ferma pietas del sonetto incipitario e più allo sdegno politico, è il sonetto del secondo mandato di george bush jr., che inizia e finisce rovesciando incipit ed explicit della quartina di Michelangelo «Caro m’è il sonno», a dire con voce di pietra e di buio, con voce di Notte, quanto «fuori tutto infogna». In questa critica all’esistente, che nella poetica di Bàino appartiene al compito del poeta, la stratificazione arriva a complicare le cose, a rendere il messaggio più denso, a moltiplicarne i potenziali sensi. Così avviene anche in friendly fire, che prende avvio segmentando e privando di lirismo un verso dell’Antologia di Spoon River, «sulla collina. tutti lì. che dormono», improvviso e inaspettato cimitero di guerra «senza pace», in cui la storia «va al suo gorgo». Che il piano civile non sia l’unico, ma che anzi sia frammisto al piano esistenziale, è mostrato da un’occorrenza, da una iterazione che vale come spia. È il «gorgo» pur presente – e sempre in rima, si noti, – tra fronte e sirma nella bellissima come a paestum, «un gorgo / involontario» che ci rappresenta, che è «noi» e «ogni nostro tratto d’arteria». Qui, ai versi dedicati da Hölderlin all’autunno nei suoi sensi più lati, in Metà della vita, Bàino aggiunge la suggestione visiva e allegorica del tuffatore della notissima tomba, còlto appena ha spiccato il salto sullo specchio d’acqua che è passaggio tra vivi e morti: «sai, con le gialle pere il tuffatore / si curva, con il folto delle rose / selvatiche, e il paese (le sue ore / d’ocra rossa dentro il lago) – le cose // chiudono il cerchio mentre alla mercé / fluida dell’acqua è tutto».
La concentrazione imposta dall’istituto metrico ha favorito, questa una delle felicità del libro, sedimentazione e intreccio tra temi e arti, in coesione di (rinnovata) forma, ed esplosione di rivelatrici schegge in rima.
Come a dire che del sonetto, qui, non si fa un uso «naturale», quasi nulla fosse avvenuto da Giacomo da Lentini in poi, ma un uso «storico», invece, e «straniante» al modo di «una citazione», come avrebbe raccomandato Sanguineti. Un uso che al poeta continui ad assicurare, soprattutto, il suo sguardo critico e lo faccia essere, com’è nelle aspirazioni di Bàino, «colui che esprime l’abisso che c’è».

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