La leggera e tenace lama di porfido rosso della Patagonia, sapientemente arenata nel verde dei giardini e dei campi spianati lungo il retro vetrato – sede progettata da Renzo Piano in simbiosi con il fondatore – accoglie fino al 2 settembre la prova di forza curatoriale di chi ha potuto contare sulla qualità organizzativa, il prestigio e la capacità di fundraising che distinguono la Fondazione Beyeler di Riehen, alle porte di Basilea. Quella dedicata ad Alberto Giacometti e Francis Bacon è la mostra che ogni studioso di Novecento sogna di esser messo nelle condizioni di fare. E non solo perché i protagonisti coinvolti sono di quelli da far tremare i polsi, forse il più grande pittore e il più grande scultore del proprio secolo, quantomeno nell’ampio recinto del figurativo. L’impressione è, infatti, che i curatori abbiano potuto attingere ai vertici della rispettiva produzione, non solo dando corpo agli evidenti punti di contatto o simmetria della loro opera, ma ottemperando all’esigenza di una conoscenza complessiva dei protagonisti chiamati in causa.
La prima mostra che un museo dedica a un puntuale confronto tra i due artisti non poteva del resto nascere in una sede più appropriata. Il gallerista Ernst Beyeler ha dedicato loro più di una mostra nella sua galleria, giocando un ruolo chiave nell’acquisizione di centinaia di opere da parte di privati e musei pubblici. Va da sé che la Fondazione Beyeler conservi nella propria collezione opere di entrambi, tra le quali uno dei celebri Homme qui marche (1960) di Giacometti, per l’occasione esposto con il suo gesso preparatorio, e In Memory of George Dyer (1971), forse il più bel trittico dipinto da Bacon. E del resto la Beyeler aveva dato prova della propria attitudine e competenza, allestendo nel 2004, in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna, una grande mostra dedicata a Francis Bacon e, nel 2009, un’ipertrofica retrospettiva riservata all’opera di Giacometti.
La mostra, nella chiarezza del percorso espositivo, si rivolge a un pubblico internazionale colto ma fruitore di un immaginario contemporaneo. Superata la sala introduttiva, che, grazie a bellissimi gruppi di fotografie, lettere e dediche, aggancia i due artisti tra loro e alla storia personale e culturale di Beyeler, si accede a una «stanza immagine», una sorta di manifesto della mostra, o meglio, una perfetta sala-selfie che non richiede spiegazioni per essere capita e che, da sola, giustifica la mostra, rendendo palpabile un legame imprescindibile tra i due artisti. La celebre scultura Le Nez (1947-’49) di Giacometti è posta accanto a Head VI (1949), uno dei celebri papi urlanti di Bacon, tra i primi della serie. Sono due opere praticamente coeve che condividono non solo la drammatica e clamante bocca spalancata, ma soprattutto l’intelaiatura formale della gabbia: un parallelepipedo penetrato dal lunghissimo naso della scultura di Giacometti, inesorabilmente appesa alla stessa gabbia da cui vorrebbe uscire. Una struttura lineare che, nel dipinto di Bacon, è messa i crisi dalle onde d’urto di un grido lancinante. Un confronto iconico che dice di una sorta di partenza comune, nella necessità di dar corpo alla violenza del vuoto. Per entrambi, non tanto il dramma collettivo di una Guerra da poco conclusa, ma quello personale di una guerra esistenziale lacerante e in corso, trova nella gabbia la sintesi formale di un ordine che nello stesso tempo si cerca e da cui si vuole fuggire; un rigore, dell’arte e degli affetti, tanto attraente quanto più lo si rifiuti, cercando di farlo saltare.
Un tema, quello delle gabbie, che è magnificamente svolto nella quarta sala – sculture al centro e grandi quadri alle pareti – e che permette di cogliere l’articolata declinazione e la definitiva centralità del tema nell’opera dei due artisti. Per Bacon la gabbia è chiamata a contenere la feroce vitalità animalesca di uno scimpanzé, diventa perimetro esistenziale da varcare per un orso o per un nuotatore in bilico sul bordo, si trasforma in stanza claustrofobica per un omaggio alla Corazzata Potëmkin o viene varcata da un’inquietante duna di sabbia che sembra destinata a inglobarci. Per Giacometti la gabbia è già presente nell’intelaiare una delle sue prime sculture che tanto piacquero ai surrealisti, Boule suspendue (1930), dove è chiamata a contenere la strabordante eroticità di due forme incontrovertibili, unite in un movimento non difficile da immaginare in atto; presto diventa tema esplicito dell’opera, spazio d’azione per composizioni dei suoi celebri uomini filiformi, corrosi dalla vita
Tra la prima e la quarta stanza, oltre a una doppia sala video, trova spazio un forte elemento biografico comune, chiamato a far da cerniera. Una delle celebri modelle di Bacon, la pittrice Isabel Rawsthorne, alla quale si deve l’incontro tra i due artisti, è presente in mostra grazie ad alcuni celebri ritratti degli anni sessanta del pittore irlandese e ad alcuni disegni e sculture di Giacometti, che della Rawsthorne era stato anche amante alla fine degli anni trenta.
Non manca una tecnologica e avvolgente ricostruzione video 1:1 dei due studi degli artisti: quello parigino di Giacometti, evocato in un angolo, e quello di Bacon – ora filologicamente riallestito al Museo della città di Dublino –, le cui immagini scorrono su una sagoma a pavimento che si trasforma in una piscina di colori in cui si vorrebbe annegare.
Ma a rimanere indimenticabili saranno probabilmente le quattro sale centrali della mostra, in cui il canto libero dei due artisti si fronteggia, sfida e compenetra liberamente, grazie alla giustapposizione armoniosa e violentemente poetica di veri capolavori. Quasi non si contano le figure umane di ogni dimensione e grado di Giacometti: teste, mezzi busti, figure intere, uomini che camminano nello spazio… in particolar modo gessi mai esposti prima, grazie alla partecipazione alla mostra della Fondation Giacometti di Parigi. Chiamate a fare da metronomo esistenziale, le figure dello scultore grigionese segnano il tempo e puntellano lo spazio alle opere di Bacon: un dispiegamento di grandi trittici e ritratti da far ipotecare la giornata.
Sembra improprio, o inesorabilmente riduttivo, provare a stendere un bilancio di un incontro tra questi titani della figura umana che definivano realista la propria ricerca artistica. Va detto che Bacon, esattamente come ci accadde nel 2004 e nelle occasioni che ne seguirono, sorprende per la qualità controllatissima e la capacità di dominare la materia, in cui sperimenta differenti tecniche di stesura e velatura, impossibili da percepire se non dal vero, che bilanciano la violenza dei contenuti espressivi che rischiano di semplificare impropriamente portata e fisionomia dell’artista. Bacon sembra in grado di disturbare la visione delle sculture, il procedere estroflesso del pittore, quando ti fa urlare addosso dalla carne, ti schianta alle pareti. Indietreggiando in cerca di riparo, tuttavia, non saranno certo le cariatidi esistenziali di Giacometti a esserci compagne di spavento, né, tantomeno, a darci asilo. Si incontrerà solo la risposta al diapason drammatico di uno scultore che i sentimenti e la drammaticità è riuscito, al contrario, a introfletterli fino allo spasmo, quasi fossero buchi neri dalla densità vertiginosa e, se possibile, persino più allarmante. Non resta che procedere: ammaliati, frastornati, accolti e rifiutati da questo moto centrifugo e centripeto dei sentimenti.