Baco» è una parola strana, con vari significati, tutti abbastanza condivisi ma non sempre integrabili. Su questa oscillazione, Giacomo Sartori organizza un bel racconto che dura tre stagioni e sfiora gli ottocento metri lineari (Baco, Exorma, pp.331, euro 16,50).
A parte il piccolo insetto che si trasforma in crisalide, poi in farfalla, e gli altri tipi di vermi e larve di insetti che guastano i frutti, la parola «baco» indica un difetto nel funzionamento di un qualche dispositivo: mente bacata, discorso bacato, programma o progetto bacato, e così via; cioè allude alla presenza di un qualche attore alieno che agisce indipendentemente dal suo ospite e ne compromette l’integrità. Anche familiare è la parola inglese bug, con cui si indicano difetti di programmazione dei codici sorgente, che hanno l’effetto di produrre comportamenti imprevisti o deviazioni dalle finalità volute. Codici sorgente che normalmente non sono disponibili agli utenti di un programma.
Ciò, stranamente, riporta a una possibile etimologia di «baco», dalla parola latina opacum, ombroso, oscuro. In effetti, davanti a un bel frutto (è un esempio) desta sorpresa veder sbucare un vermiciattolo che ne ha divorato parte dell’interno. Ma sul sito di Nazione Indiana (3 dicembre 2019) si può trovare un comico dizionaretto stilato dall’autore stesso su molte figure del suo libro.

LA STORIA è più o meno questa. Un ragazzo sordomuto, che si esprime nel linguaggio dei segni e sta imparando a usare la voce (ma anche a tenere ferme le gambe e i denti, che mordono volentieri), racconta (o scrive) un tratto estremamente drammatico della sua vita più recente: la madre è caduta in coma a causa di un incidente stradale.
Nell’attesa di un risveglio che sembra difficile, il ragazzo è indotto a compiere una ricognizione affettiva della sua famiglia. Un nonno, premuroso, che lo porta con sé nelle sue attività di vermicultore; un padre, esperto informatico ed eterno ragazzo, che torna a occupare il suo posto in casa lasciato dopo la separazione; un fratello, genio informatico, che ha il nomignolo QI185, pressoché simile a una sfinge quanto al suo slancio emotivo; ai parenti più stretti si aggiungono la logopedista, Logo, che mostrerà un’attenzione affettuosa assai superiore a quella strettamente professionale, e infine Baco, un programma interattivo capace di apprendere rapidamente, evolversi autonomamente fino ad acquisire una coscienza propria e diventare il miglior amico del ragazzo.

SEMBREREBBE ESSERCI, infine, un’altra presenza, un piccolo baco inoffensivo che sarà divertente scoprire. Tutti circolano in una casa (il pollaio) ad alta conduzione domotica, dispersa in una campagna indefinita, dove si inscena un perenne conflitto di vicinato tra apicoltura naturale (di cui si occuperebbe la sfortunata madre) e agricoltura agrofarmacologica (condotta dal vicino, detto Imida, abbreviazione di un insetticida sistemico, l’imidacloprid). La trama si sviluppa anche in maniera avventurosa e sorprendente, e per questo non va svelata.
Bisognerà però porre un po’ di attenzione nell’intercettare chi stia materialmente scrivendo la storia che stiamo leggendo: diciamo solo che c’è un mediatore tra i segni e le parole incerte dette ad alta voce e il discorso fluente che li «schiaccia» e «incatena». Un punto di forza del linguaggio di cui Sartori ha dotato il suo ragazzo narrante è la similitudine: ce ne sono a centinaia e spesso divertentissime. E c’è da credere che come ogni figura che esplora il mondo delle analogie, questo sia il modo con cui il giovane protagonista compie quella complicata esperienza con cui si conosce il mondo dando un nome, o forma, alle immagini e ai pensieri che si producono nell’ambiente percepito.

SEBBENE IL RACCONTO scorra in maniera gaia e spassosa, un suo tema decisivo è la gestione del sospetto. Il sospetto è un tipo di attenzione che poi quando arriva trasforma tutto in certezza, una certezza che si materializza dal sospetto: un baco. Il confine tra la prudenza e la paranoia non è molto ben segnato nelle pratiche relazionali. Sembra che anche nel discorso interiore possa accadere che si sospetti delle immagini che si producono a proprio uso e consumo. In questo romanzo il sospettato numero uno è il linguaggio.

NON SI CONTANO la quantità di affermazioni dubbiose sulla capacità delle parole di esprimere il pensiero: si confondono col sogno, cercano sempre di giustificare fatti o di colmare vuoti di conoscenza, mancano di precisione, cercano la menzogna. Alla fine, quel che si mette insieme con le parole rischia sempre di non essere creduto o di non apparire così come si vorrebbe che apparisse. Che la voce narrante sia quella di un ragazzo incerto sull’efficacia della parola (vi sia o meno qualche intenzione mimetica dei processi linguistici e cognitivi adolescenziali) e che egli stesso abbia premura di raccontare la sua propria versione dei fatti (ci sia o no qualche aspirazione alla rappresentazione di una autenticità soggettiva), sono due condizioni che rivelano un senso umoristico rispetto alla narrazione romanzesca, spesso presa dall’angoscia di raffigurare una qualche verità. Ma ancora più umoristica è l’idea di provare a sottometterla alla legge del baco: ed è per questo che Baco ha, in sostanza, un effetto liberatorio rispetto a certe inibizioni che l’ossessione del credibile impone.