Delle Comore, cui appartiene solo geograficamente, Mayotte è l’isola più a sud. Un microhabitat nell’Oceano Indiano, nota per lo più ai praticanti dello snorkeling. Prezioso anche per custodire e aggiornare le tradizioni legate all’epoca schiavista e pre-schiavista. Oltre che ispirare connessioni ambiziose come quelle che musicalmente Baco Mourchid disegna nella sua musica, intrecciando il battito dei tamburi locali con le influenze afrocaraibiche e afromericane. «Sono tornato a Mayotte per registrare i tamburi. Il ritmo dei tamburi ngoma lo trovi solo qui, non c’è da nessun’altra parte. In questi giorni sto provando con dei musicisti locali dal momento che è tutto fermo a causa della pandemia. Qui la situazione è abbastanza tranquilla. I miei musicisti sono rimasti in Francia e io sto organizzando dei concerti qui. Sì, The Urban Plants sono quasi tutti africani, in maggioranza guineani, così come le due coriste, ma vivono in Francia da diverso tempo».

CHITARRISTA, compositore, autore, cantante, quando ha messo piede per la prima volta nella Métropole, Baco aveva solo sei anni. «Mayotte a quel tempo non era ancora una regione d’Outremer. La nostra isola ha una storia di colonizzazione troppo lunga da raccontare. I francesi sono venuti qui per la prima volta alla fine dell’800». Quattro dischi in venti anni prodotti e distribuiti in indipendenza e autonomia. Anche per questo triplo album, Baco ha fatto a modo suo, incontrando il favore della parigina Baco Records che gli ha pubblicato, Rocking My Roots. Un titolo che non fa mistero di influenze e passioni, senza rinnegare le radici, ok. Ma con la volontà di non addentrarsi in posizioni essenzialiste. «Ho cominciato a suonare la chitarra elettrica a dieci anni perché uno dei miei primi miti musicali è stato Jimi Hendrix, oltre che Bob Marley, naturalmente. Da bambino, sognavo di suonare la chitarra come lui e mi esercitavo ore e ore ascoltando le sue cassette. Ma a sei anni suonavo già gli strumenti tradizionali nelle cerimonie tipo matrimoni, funerali.. Per noi è un modo per connettersi con gli antenati. Qui si usa così, ognuno ha a che fare con la musica sin da bambino, perché la musica non è un’eccezionalità ma parte integrante della nostra quotidianità. La musica tradizionale è considerata un patrimonio da preservare affinché non venga dissipata dalle nuove generazioni».

NON UN CUSTODE di un’antica forma tradizionale però, Baco è piuttosto un esploratore di un’idea di musica plurale capace di «monetizzare» il legame privilegiato con la Francia che tuttavia non ha impedito o limitato le mescolanze linguistiche creole, consentendo ai cantanti locali di prendersi qualche licenza nei confronti della lingua madre/matrigna.

«C’È UNA DIFFERENZA tra la mia generazione e quella dei mie figli. I miei figli sono nati in Francia e preferiscono stare e Parigi, parlano sempre il francese. Io sono stato esposto alle influenze culturali che provengono dalle Comore, dal Madagascar, e soprattutto dai bantu che è il principale gruppo etnico dell’Africa. Abbiamo perciò diversi ceppi linguistici, il sabaki è una lingua legata alle Isole Comore, il kibushi alla lingua malgascia, ma una grande influenza è la lingua swahili. Nei miei brani mescolo tutte queste lingue, a seconda dell’ispirazione del momento e della storia che voglio raccontare, a volte mi sembra funzioni più in una lingua, altre volte in un’altra, quando vado a costruire la metrica. Mizani è in swahili e significa bilanciamento, parla della necessità di soppesare il bene e il male».