Un action thriller con l’anima di un musical orchestrato da un juke box. È Baby Driver, (nelle sale italiane il 7 settembre come Baby Driver – Il genio della fuga ) nuovo enfant prodige dell’estate cinema americana dopo la pink revolution di Wonder Woman. Come il film di Patty Jenkins (con cui condivide anche l’unanimità del favore critico), l’ultimo lavoro dell’inglese Edgar Wright porta un soffio d’aria fresca, di imprevedibilità e di ambizione nell’afa delle uscite «blockbuster», su cui caleranno molto presto le truppe del nolaniano Dunkirk (in Italia il 31 agosto).

Più conosciuto e amato in Inghilterra e Usa che da noi – a Los Angeles, ha studiato la lezione di grandi maestri della New Hollywood come Walter Hill e John Landis, coltivandone anche l’appoggio e l’amicizia – Wright ha costruito la sua opera, ambientando appassionati omaggi al cinema di genere americano nella provincia inglese (è nato nel Dorchester), di cui ha sfruttato al meglio i luoghi (a partire dall’immancabile pub), gli idiomi e la texture della piccola borghesia. Shaun of the Dead, Hot Fuzz e The World’s End – scritti insieme all’attore Simon Pegg e conosciuti anche come «la trilogia del cornetto», o «la trilogia di sangue e gelato»- erano commedie satiriche raccontate nei modi dell horror, del poliziottesco alla Bad Boys e della sci-fi.

Baby Driver è il suo secondo film che si svolge sullo sfondo degli Stati Uniti, dopo il sottovalutato Scott Pilgrim vs. the World. Il baby del titolo (o, come si presenta lui, facendo lo spelling, «B-A-B-Y, baby») ha il volto angelico e i contorni morbidi di Ansel Elgort, idolo teen ager dopo il successo di Colpa delle stelle (e figlio del fotografo Arthur) qui reinventato in una versione più dolce dell’impenetrabilità di Ryan O ‘Neil in The Driver e di Ryan Gosling in Drive – meno l’esistenzialismo che animava i personaggi dei film di Walter Hill e Nic Refn.

Anche Baby è un asso del volante (nonostante frequenti flash back ci mostrino che il trauma infantile che ha deciso la sua vita abbia avuto origine proprio in auto), che ritma l’acceleratore, ogni sterzata, frenata e crash, al tempo della musica che strilla dall’ autoradio o dalle cuffiette dell’I-pod perennemente incastrate nelle orecchie.
A partire dall’inseguimento sfrenato per le strade di Atlanta con cui inizia il film, Baby Driver è una pop sinfonia di lamiere colorate in vari gradi di accartocciamento, un’estasi del catastrofico automobilistico che ricorda un po’ anche Blues Brothers, in cui, a tratti, il corpo stesso di Elgort viene usato come la superficie sensuale di una carrozzeria (non a caso, l’inseguimento più spettacolare si verifica a piedi). Molto meno monumentale dei Fast and Furious ,nel crescendo degli stunt, Baby Driver ha un feel più materico (seppur non troppo profondo), meno apertamente digitale (è anche girato in 35 millimetri), il pop virtuosismo di Wright è ancorato a un’idea tradizionale delle mise en scene filtrata dal music video.

In breve la storia: Baby è un bravo ragazzo che non parla quasi e, dopo la morte dei genitori, vive con un anziano afroamericano sordomuto in sedia a rotelle. Ricattato da un criminale che lui aveva cercato incautamente di derubare, Doc (Kevin Spacey, cattivissimo come al solito), è costretto controvoglia a fare da autista per le sanguinose rapine che Doc organizza, ogni volta con una banda diversa, fatte di individui uno più sadico dell’altro, che Baby porta acrobaticamente in salvo- tra un incidente e quello successivo – sulle note di Barry White, i Commodores, Martha and the Vandellas, i Queen e Simon & Garfunkel…

La musica il suo modo di entrare in sintonia e allo stesso tempo tenere a distanza il mondo, Baby (il cui tesoro più grande è l’audiocassetta di sua madre che canta –come il bambino in Sound Barrier, di Amir Naderi) ha un piccolo registratore con cui cattura frammenti di dialoghi e parole che incontra nella sua giornata e che poi mixa trasformando in canzoni.
Tra quei suoni c’è anche la voce della bella cameriera di un diner, Deborah (Lily James) di cui s’innamora, ricambiato. Il loro sogno on the road deve però fare i conti con Jamie Foxx psicopatico, John Hamm assetato di sangue, la simpatica impiegata di un ufficio postale che riconosce Baby e un po’ di finali multipli di cui non ci sarebbe bisogno.