Louis Brauquier è un poeta nato nel 1900 e morto all’età di 76 anni. Poeta navigatore, agente delle messaggerie marittime. Poeta nomade e schivo, che partiva sempre e sempre a Marsiglia ritornava, portando nel cuore tutto il fascino e la potenza di questa città-globo. Amatissimo da Jean-Claude Izzo, che lo citava continuamente nei suoi romanzi, e finalmente anche da altri, marsigliesi e non. Tra gli estimatori certificati di Brauquier e della sua poesia dolente e lirica, vanno ascritti anche i componenti dell’ensemble che ha aperto l’undicesima edizione del Babel Med di Marsiglia: i Radio Babel. Vers des Docks et des Quais è il titolo emblematico del loro ultimo album, un caravanserraglio di voci polifoniche e beatbox dal quale emergono spesso i testi delle poesie di Brauquier. Non potevano che essere loro ad inaugurare il folto cartellone del Babel Med – mostra mercato, occasione di incontri e approfondimenti, prestigiosa passerella concertistica – con un set folgorante incorniciato dal brano Babel, spudorato e accorato elogio della babele linguistica e musicale, così ben rappresentata dal dna plurale della città di Marsiglia.

Nelle parole di un altro funambolo della voce di questa città, il leader dei Cor de la Plana Manu Théron, ci sono alcune delle premesse teoriche di un evento come questo che muove, in tre giorni, più di 2000 addetti ai lavori, presenta una trentina di concerti selezionati tra un migliaio di candidature, assembla musicisti da 32 paesi diversi e da tutti e cinque i continenti: «Non bisogna porsi il problema delle origini – ha detto Théron a proposito del suo recente lavoro sulla musica dei ’trobadours’- ma quello degli itinerari, e degli attraversamenti. Come si è passati da un’epoca all’altra? Da una geografia, da una regione o da un immaginario all’altro? È così che si approcciano le musiche, così che si trasmettono in modo corretto».
Gli itinerari possibili al Babel Med sono tanti, la certificazione delle origini delle musiche spesso ambigua, sfuggente; perché le musiche, i suoni, gli strumenti non hanno nulla a che fare con le decisioni della politica e con i confini decisi arbitrariamente da un capo di stato, da un militare o da un jihadista. Così, in tempi in cui le statue vengono abbattute, gli strumenti musicali interdetti, i libri proibiti e i dissidenti assassinati, diventa più importante che mai «ascoltare il mondo» (così recita il sottotitolo programmatico del Babel Med) in tutta la sua frastagliata e composita bellezza. Perché non è poi così facile capitare in un festival in cui, come è successo a Marsiglia in questi giorni, si possa ascoltare nella stessa la patchanka sfrenata degli israeliani Boom Pam e l’etno-jazz del marocchino Majid Bekkas (virtuoso dell’oud e del guimbri), i canti giudeo-spagnoli del xv secolo intonati dalla voce impeccabile di Françoise Atlan e i capolavori dell’epoca d’oro del wasla egiziano (musica araba di matrice colta interpretata a Marsiglia dal duo Tarek Abdallah & Adele Shams El Din)….

Tra i protagonisti più fertili degli «attraversamenti» in musica ci sono senza dubbio anche i popoli nomadi, veri e propri outsider delle società d’ogni epoca e mosche bianche del mondo 2.0…le ballate della Transilvania proposte dal violinista di origine belga-manouche Tcha Limberger stavano lì a testimoniare, insieme alla posa impassibile dei suoi due compagni di viaggio (esperti musicisti dei Carpazi, al contrabbasso e alla viola), una pratica artistica abituata a trovare linfa dalle tappe e dagli itinerari del proprio popolo, mentre la rabbiosa e sfrenata musicalità dei quattro ragazzi che compongono il progetto Songhoy Blues (costretti a lasciare la nativa Timbuctu dalla furia fondamentalista) certificava la stessa fremente vitalità, sia pure per contrappasso. E non è neppure usuale, trovare sul palco un ministro della cultura. Non è usuale vederlo suonare e certificare con chitarra e voce la fragranza di una cultura creola.

Nella Sale des Sucres dei Docks di Marsiglia (sede storica del Babel Med) è capitato anche questo. Mario Lucìo è da un paio d’anni il ministro della Cultura di Capoverde. Nel frattempo naturalmente, dopo aver scritto col gruppo Simentera, pagine illuminanti sulle grammatiche musicali di questo arcipelago atlantico affacciato sull’Africa, non ha smesso di comporre e suonare e all’interno dell’evento transalpino ha fatto da apripista col suo gruppo ad un altro combo che si può indicare oramai come un pilastro della musicalità capoverdiana: i Ferro Gaita.

Il connotato «metallico» della loro insegna si riferisce esplicitamente alla sonorità dei ferrinhos, barre metalliche che vengono strusciate con un bastoncino di ferro e che danno la tipica grana timbrica ai ritmi frenetici delle funana e delle tabanka proposte dall’ensemble. Un altro bel tipo di «frenesia» ritmica è il lascito di due combo femminili che hanno riscaldato lo Chapiteau (il palco in tensostruttura) battuto negli ultimi giorni da un insistente maestrale. Solo voci, danze e percussioni in entrambi i casi. Il Trio Teriba arriva dal Benin e riesce a portare le ritmiche dello stile tchink west-africano in un febbrile girotondo che guarda all’attualità. Il girotondo diventa vortice nel caso delle Simangavole. Arrivano da isole in mezzo all’oceano, come i Ferro Gaita, ma qui l’oceano è un altro, è quello Indiano, e l’isola di provenienza è La Reunion.

Le cinque componenti dell’ensemble approcciano la trance ternaria di uno stile tradizionale come il maloya con una freschezza ed un vigore quasi tellurico. Il kayamb, la percussione tradizionale dell’isola, sorta di grande maracas a forma di parallelepipedo, dominava la scena a Marsiglia, ma sul palco delle Simangavole trovavano anche tamburi, congas, lamine in ferro, campane, triangoli e altri ammenicoli autocostruiti.

Canzoni d’amore, canzoni di festa e canzoni sensibili al tema delle radici e a quello dell’emancipazione femminile. Trasformate in performance da musiciste capaci di evocare il mare davanti al mare. L’oceano Indiano davanti al Mediterraneo.