Proprio come in uno dei suoi ricorrenti incubi disneyani, trasfigurati dall’idiozia del reale, la fabbrica di cioccolato installata da Paul McCarthy alla Monnaie de Paris (visitabile fino al 4 gennaio 2015) si è aperta poco dopo la caduta e la vandalizzazione di un totemico albero di Natale a forma di sex toy. L’artista lo aveva pensato come fosse un trailer e lo aveva esposto in Place Vendôme, in contemporanea con l’apertura della Fiac (la fiera d’arte), ma la protesi anale è rovinata a terra, trascinando con sé anche il tabù dell’intoccabilità dell’artista. Si è sgonfiata così l’idea che l’arte concettuale e le sue provocazioni abbiano esiti inoffensivi. I cazzotti fascisti – ricevuti sul serio dall’artista al momento del montaggio dell’opera – rimandano un’immagine speculare della libido repressa nell’omofoba e intollerante Francia di oggi.

Di per sé sarebbe già un successo che questo lavoro di Paul McCarthy, così politico, sia passato attraverso un bagno sacrificale di realtà e non attraverso la fiction di un reality show. Chi non ha mai amato la sua estetica gore/splatter, adesso potrà evocare la prossimità con il teatro brechtiano. E, proprio come nel terzo atto di Happy End (Kurt Weill/Bertolt Brecht) è il mantra di un Babbo Natale ubriaco quello che resterà nella testa di un qualsiasi visitatore quando uscirà dalla Chocolate Factory di McCarthy.

Nemmeno lo stucchevole profumo di cioccolato, che si fa acre nelle quantità industriali in cui è proposto, basterà a sedare l’idea che in questo mastodontico parallelo (nove sale di stoccaggio e una di elaborazione) tra produzione, consumo, gradimento e spettacolo, qualcosa sia saltato o addirittura esploso. Sarà la capacità di gestire gli estremi con semplicità che McCarthy associa alla ripresa di un tema classico quale la leggenda di Babbo Natale, metafora della credulità infantile e dell’infantilismo del capitalismo avanzato. Sarà che la fabbrica di cioccolato, già presentata alla galleria Maccarone di New York nel 2007, possiede un’energia dirompente e, soprattutto, ha mantenuto intatta la sua funzionalità: sforna quantità notevoli di sculture (statuette da 50 euro l’una alla cassa), anche se è installata nella sede storica del conio di Parigi. Un lavoro perfetto, studiato come un magnifico prodotto da ricorrenza: lo possiamo considerare sia opera che gadget e, infine, apparato critico.

Alla Chocolate Factory è affidato anche il compito di illustrare un intenso programma di arte contemporanea di grandi ambizioni (a seguire, arriveranno Marcel Broodthaers e un progetto di Obrist) che si aprirà al pubblico sotto la direzione di Chiara Parisi. E la curatrice italiana ha deciso di celebrare i fasti produttivi del nuovo spazio con questa difficile inaugurazione: una vera e propria scommessa.

Sotto la volta monumentale del salone d’onore, dipinta da Jean-Joseph Weerts, è il genio della Francia che incorona la città di Parigi e magnifica i ritratti degli organizzatori della Prima Esposizione Universale; sul soffitto le figure del Commercio e della Fortuna spargono una pioggia d’oro. Proprio qui McCarthy ha voluto testare i contrasti. L’attività di laboratorio della sua cioccolateria stride con l’austerità del luogo. La meccanicità del lavoro, i residui di taylorismo e la favola del consumo, con le sue merci e la promessa di felicità per tutti sono, in fondo, la realizzazione del sogno natalizio: la leggenda di Babbo Natale.

Le porte automatiche si aprono sulle sale di stoccaggio dove scaffali e scaffali di figurine di Santa Claus riposano e si asciugano prima di essere inscatolate. Vista con gli occhi di un bambino, la moltiplicazione e la quantità accumulata di prodotto distrugge il mito dell’unicità del dono. La fabbrica uccide dono e incanto e produce «commodity» per tutti. Qui il colpo di grazia è dato dall’artista che – invece di resistere e sfoderare l’autenticità del pezzo unico – si declina nel gioco del multiplo per la soddisfazione del mercato. Va in scena molto più della trasfigurazione della merce: è lo svelarne il ricatto e la metamorfosi in collaboratori attivi di questa agenda.

Il mantra di McCarthy che recita: sei tu l’artista? lo stupido, fottuto artista? è trascritto ossessivamente su fogli bianchi appesi al muro con scotch arancio ed è urlato e rimuginato in un video dall’autore stesso, in una prosa beatnik. Figure di sodomia o di dominazione interrompono l’aggettivazione e gli insulti che riempiono pagine e pagine sembrano una personale terapia all’aggressione subìta da McCarthy in Place Vendôme.

Non è più un lavoro innocuo, come appariva sulla carta o nei suoi multipli, in edizione limitata, venduti in eleganti scatole regalo nelle due casse, all’ingresso della mostra. È piuttosto la sezione di un grande magazzino da film dell’orrore. Le sale con letti sovrapposti per nanetti e l’aria da favola capovolta non può che dirci che siamo entrati nell’avamposto del collasso della disneyzzazione globale.

Più della fine della favola, l’iperproduttività e la crescita esponenziale in atto in questo luogo si configurano come la critica alla diffusione virale del non-evento nell’arte contemporanea. È una piattaforma di pensiero.

Non sappiamo se a Paul McCarthy riuscirà mettere a frutto il progetto di un big studio anti-disneyano da far sorgere vicino al deserto del Mojave, dove vorrebbe girare film anti-western. In questa installazione, sicuramente, la sua critica all’idiozia monumentale in stile hollywoodiano ha gettato le fondamenta per la creazione di un pubblico disincantato e più avvertito.
A nessuno piace essere trasformato in un prodotto da ricorrenza, forse neppure a Babbo Natale.