Baba Sissoko entra nel proscenio del Teatro Studio con il suo boubou multicolore e un drappo bianco che gli ferma i dreadlocks. Tiene ad altezza bocca le lamelle di una m’bira, alcune le pizzica, su altre ha appoggiato un piccolo aerofono e vi soffia dentro come fosse un kazoo…Il suono che ne viene fuori è insieme selvaggio e ipnotico, una sorta di grido metallico supportato da un groove saltellante. A questo manovrìo si aggiunge poco dopo il pianoforte di Antonello Salis che inizia il suo concerto con una sorta di tappeto “minerale” ottenuto grazie a un pianoforte preparato con oggetti di metallo: catene, collane, lame…

Il pezzo che apre il concerto del Duo Salis/Sissoko all’Auditorium è lo stesso torrenziale Kumbe (Beautiful Meeting) che apriva Jazz (r)Evolution, l’album licenziato dai due nel 2015 insieme a Famodou Don Moye, il batterista dell’Art Ensemble of Chicago. Il pezzo è quello o quel che ne resta, perché come avverte Sissoko “in questo progetto la musica cambia continuamente, è qui e ora, diversa da come l’abbiamo fatta ieri e da come la suoneremo domani”. Il duo è oramai molto affiatato, due musicisti molto diversi che si stimolano a vicenda e per certi versi si compensano. Da una parte Baba Sissoko, maliano di famiglia griot, trapiantato in Italia da decenni, fautore di un inesausto impegno nella diffusione della cultura della sua terra d’origine e delle commistioni della stessa con altri generi musicali, jazz in primis; dall’altra Antonello Salis, musicista sardo che ha metabolizzato il free e la musica etnica in una sorta di esperanto sfavillante, corroborato da una tecnica strumentale fenomenale, che dopo tanti anni e tante declinazione non ha ancora perso la sua capacità di sorprendere, deviare, allibire.

Entrambi sono versatili polistrumentisti e anche per questo il loro incontro non soffre certo della carenza di coloriture che la scarna mobilitazione strumentale di un duo potrebbe far presupporre: Sissoko canta, ma al contempo suona m’bira, tamani (il cosiddetto “tamburo parlante”), n’goni (strumento tradizionale maliano, sorta di piccolo liuto o mandolino in versione west-africana) e batteria; Salis è un pianista monstre, fisarmonicista inarrivabile, oggi anche tastierista eversivo (sul palco faceva bella mostra di sé una tastiera Roland usata talvolta anche come batteria elettronica o percussione di supporto). Dicevamo che per certi versi i due si compensano. La loro vis musicale ha tante radici comuni, in primis il rapporto simbiotico tra ritmo e improvvisazione e una visione afro-mediterranea del proprio bacino ispirativo. Ma a vederli all’opera l’altra sera nello spazio accogliente del Teatro Studio veniva appunto anche da pensare che insieme si bilancino attenuando alcune propensioni “pericolose” dell’uno e dell’altro.

Salis attenua la vis “partecipativa” di Sissoko, un vizietto che spesso lo porta a coinvolgere reiteratamente il pubblico e far suonare (o cantare, o battere le mani) la gente in ogni pezzo del concerto. Capita troppo spesso quando si esibisce in solo, è capitato molto meno nel corso del lungo set con il pianista sardo. Sissoko, con il suo mirabile talento melodico e la sua propensione a cesellare canzoni, spinge d’altra parte Salis ad attenuare un poco, o perlomeno ad irreggimentare fertilmente, il suo febbrile afflato atonale, la sua tipica vena noise, il suo disordinato (e spesso meraviglioso) fraseggio girovago. Molto utile in questo senso anche la decisione di looppare i riff dello ngoni (alle volte anche in versione armonizzata con l’aggiunta di bassi digitali) per usarli come groove di base sui quali Salis poteva esacerbare i suoi excursus solistici e Sissoko poteva aggiungere assoli di n’goni sullo stesso n’goni loopato, oltre ad intonare melodie e salmodie alla voce, sedersi alla batteria minimale che gli è servita spesso a sottolineare le coloriture ritmiche, e improvvisare con il suo mirabolante tamani. Va detto comunque che se c’è una cosa che non manca mai al corredo sonoro del duo, è proprio il supporto ritmico, non solo per le tante abilità di Sissoko in questa direzione, ma anche per la sfrenata inclinazione poliritmica del pianismo (e in genere di tutto lo strumentismo) di Salis.

Un’inclinazione che lo porta spesso a considerare il pianoforte come una sorta di seconda batteria, “preparandolo” oppure percuotendolo con bacchette, nelle parti della tastiera, del corpo in legno e della meccanica interna. In questo contesto la struttura dei brani è quasi sempre piuttosto lasca, sia quando prende la forma di storytelling dilatato e ipnotico come in Afro Blues, sia quando, come in Ebi, concede qualche timida chance alla perlustrazione della forma canzone. In un caso e nell’altro ci sono due musicisti che si agitano nel magma e, anziché impaurirsi o farsi prendere dal panico, sguazzano nella materia con espressione divertita e stupefatta.