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Jazz em Agosto, uno sguardo in avanti verso la libertà dei suoni

Jazz em Agosto, uno sguardo in avanti verso la libertà dei suoniSylvie Courvoisier e Cory Smythe – foto di Petra Cvelbar/Gulbenkian Música

Musica La storica rassegna lusitana è giunta alla quarantesima edizione. Un totale di diciassette appuntamenti fino all’11 agosto prossimo, e una politica di prezzi popolari, che arrivano ad un massimo di 15 euro a seconda dei concerti. Tra gli ospiti più attesi il sassofonista James Brandon Lewis e la statunitense Ava Mendoza

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 6 agosto 2024

Jazz em Agosto ha di che festeggiare: la rassegna organizzata dalla Fundaçao Calouste Gulbenkian è nata quarant’anni fa, nel 1984; nel primo anno della pandemia è stata rimpiazzata da una serie di concerti sotto la semplice dicitura Jazz 2020, e così quest’anno fa anche cifra tonda arrivando alla quarantesima edizione. Ma le commemorazioni non sono molto nelle corde di questa manifestazione: Rui Neves e José Pinto, veterano del jazz in Portogallo il primo e rispettivamente direttore artistico e direttore esecutivo del festival, hanno preferito andare al sodo e aggiungere un’altra edizione calata nel presente all’insieme di quattro decenni di attività che parlano da soli. Quest’anno in più c’è anche il cinquantenario della caduta del regime fascista, 25 aprile 1974: ma tutta la storia di Jazz em Agosto, con la sua devozione a musiche libere e che guardano avanti, è di per sé una celebrazione dello spirito della rivoluzione dei garofani. Tra i festival jazz di maggiore prestigio in Europa, Jazz em Agosto non ha bisogno di glorificarsi: quest’anno si articola in undici serate di fila (1-11 agosto), più i set nel tardo pomeriggio nei due weekend, per un totale di diciassette appuntamenti, e se qualcuno pensa che per l’avanguardia non ci sia domanda, ecco qui la replica, con un pubblico fedele, competente, costruito nel tempo con la continuità e la coerenza delle proposte, e pubblico fatto non solo di attempati appassionati, ma dove si vede anche un ricambio; il festival lo coltiva anche con una politica di prezzi popolari, fino ad un massimo di 15 euro a seconda dei concerti. Sold out nella serata inaugurale di giovedì per il Red Lily Quintet del sassofonista James Brandon Lewis, cioè circa mille spettatori che hanno riempito il magnifico anfiteatro nel parco della fondazione; mentre il duo Sylvie Courvoisier/Cory Smythe – con l’esecuzione della versione per due pianoforti della Sagra della Primavera e un brano di Courvoisier ispirato a Stravinski – ha quasi riempito sabato pomeriggio i mille posti del Grande Auditorio, col palco che ha come sfondo una spettacolare vetrata affacciata sullo scenario di piante del parco.

MOLTE CHITARRE nei primi concerti, e una preziosa occasione di apprezzare in tre diversi contesti Ava Mendoza, che in Europa si è vista fino ad ora per lo più in solo. Quarantenne, statunitense di padre boliviano immigrato, Mendoza si è formata col blues, di cui l’esperienza familiare del razzismo l’ha aiutata a interiorizzare le valenze critiche, ed è stata attratta da musiche che dal blues sono state variamente innervate, da Jimi Hendrix al punk rock. Revels Echolocation, quartetto cointestato a lei e alla bassista Devin Hoff, con James Brandon Lewis al sax tenore e Ches Smith alla batteria, si muove tra rock blues, rock jazz, funk jazz, e si sente aleggiare lo spirito di certe esperienze newyorkesi post-punk, no wave ecc. degli anni Ottanta, certo non ricalcandole ma facendoci ricordare con piacere l’energia e la vitalità di quella scena: il chitarrismo di Mendoza è denso e con punte acide, il basso elettrico di Hoff ha un gran bel piglio, il sax di Lewis è vigoroso e anche scabro, e Ches Smith è un batterista di cui non si smetterebbe di tessere le lodi, elettrizzante, a volte meravigliosamente aggressivo e frenetico, che con grande varietà di soluzioni ma sempre pertinente assicura al gruppo una propulsione eccezionale. In comune i tre set in cui è apparsa Mendoza avevano pur in modi decisamente diversi un sapore molto «americano».

QUARTETTO di sole chitarre elettriche quello di Bill Orcutt, con, oltre a Mendoza, Shane Parish e Wendy Eisenberg: il meglio è la prima mezz’ora, con una raffica di brani molto brevi, che si interrompono sempre piuttosto bruscamente, con le chitarre che suonano quasi sempre tutte assieme e una stratificazione dei suoni per lo più senza spazi propriamente solistici; verrebbe da pensare ad una sorta di gustosa «retro» avant-garde, per la struttura dei brani, con la loro impronta che rinvia a un minimalismo d’antan, per i suoni alquanto vintage, e persino per certi accenti folk rock, oltre che rock e rock blues. Peccato che questo di Orcutt, che sembra non prendersi troppo sul serio, appaia un semilavorato, e che il set poi si sfilacci un po’: meriterebbe una messa a punto. Conciso e di grande temperamento, poi, il duo di Mendoza con la violinista newyorkese Gabby Fluke-Mogul: con atmosfere molto intense, siamo sul filo del blues rock, e si va persino in direzioni western, ma la sensibilità, e i suoni – di cui Mendoza, molto assorta nella musica e calata in quello che fa, ha un gran controllo – sono tutti di oggi. Un oggi ben chiaro a Mendoza e Fluke-Mogul, che dietro di loro hanno appoggiato una kefiah palestinese.

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