Arriva il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’orchestra e il coro, guidati da Daniele Gatti, attaccano l’inno di Mameli. Non è a volte che una cerimonia obbligata. Ma questa volta l’inno commuove, si ascoltano anche le parole. E sembrano il ritratto dell’Italia di adesso: «noi siamo da secoli / calpesti, derisi, / perché non siam popolo, / perché siam divisi …». Un partito politico oggi si fregia del primo verso. Ma si ha la percezione che l’Italia di Mameli e quella che vedremo sulla scena, dove si rappresenta Il trovatore, l’Italia sognata da Verdi, non è quella di oggi. Scrive Fedele D’Amico nel programma di sala: «Notturno attraversato da bagliori di fuoco, Il trovatore è una sorta di ballata popolare sceneggiata da una musica che la solleva nei cieli di una fantasia incandescente …».

Il regista, Lorenzo Mariani, deve avere introiettato queste parole. I personaggi entrano in scena – una semplice scalinata, sulla quale si poggiano via via panche e tavole, alla fine rovesciate come resti di un saccheggio – e tengono nelle mani un candelabro, quasi a illuminare la notte in cui si muovono. Sul fondale, un immenso schermo, si vede la luna, un cielo stellato, si alzano fiamme minacciose. Ecco che quella percezione iniziale si precisa. Brancoliamo nel buio, come i personaggi del Trovatore.

IL DRAMMA di Antonio García Gutiérrez El trovador andò in scena a Madrid nel 1836 e fu un trionfo. Come fu un trionfo, a Roma, nel 1853, Il trovatore di Giuseppe Verdi, libretto – bellissimo! – di Salvatore Cammarano. È una vicenda di passioni: odi, amori ugualmente sfrenati. Il triangolo amoroso: soprano, tenore, baritono, è quello convenzionale del melodramma. Ma non è convenzionale il personaggio che disordina le carte del triangolo e di tutti quanti: la «zingara» Azucena. Per vendicare la morte sul rogo della madre – visione ossessiva gli occhi che schizzano via dalle orbite – rapisce il figlio del Conte di Luna e lo brucia su un ceppo in fiamme, ma per sbaglio, nel delirio del momento, brucia invece il proprio figlio. Alleva il bambino salvatosi, fratello del figlio del Conte, come figlio proprio. È Manrico, il trovatore, che contende al nuovo Conte di Luna, l’amore di Leonora, la dama di compagnia della regina d’Aragona. I due fratelli si odiano e nessuno dei due sa chi sia l’altro. Solo alla fine, quando il boia mostra la sua testa mozzata ad Azucena, ella grida al Conte: «era tuo fratello, imbecille!» L’ «imbecille», nel libretto, è espunto da Cammarano.

PERCHÉ una storia così cupa ci fa sentire così altra, così estranea l’Italia di oggi? In fondo siamo in Spagna, mica in Italia. Ma Verdi porta sulla scena storie del mondo per parlarci dell’Italia. E ci parla di un’Italia profondamente ingiusta, nella quale lo stigma sociale conta più della verità del carattere.
L’eroina dell’opera è la zingara, l’unico personaggio le cui passioni nascano dall’ingiustizia degli altri, a cominciare dal marchio infamante di essere una zingara, e dunque ovviamente una creatura mostruosa, malvagia, riprovevole. La notte in cui questi personaggi brancolano è la notte dell’ingiustizia.

Siamo disposti, noi italiani di oggi, a fare nostro il monito di Verdi, a riconoscere in Azucena non già la zingara, il mostro da espellere, ma la sorella, come ci recita l’inno di Mameli, che ci dichiara tutti fratelli? Daniele Gatti approfondisce via via la sua lettura di Verdi. Intanto apre tutti i tagli, dimostrando quanto attenta sia la drammaturgia musicale verdiana. Ma, soprattutto, dà rilievo straordinario al fraseggiare frenetico, struggente, della musica. Splendido l’attacco dell’ultima cabaletta di Leonora – un’intelligente sensibilissima Roberta Mantegna. E giusta l’eliminazione del do squillante della cabaletta di Manrico – un Fabio Sartori assai corretto, preciso, ma non troppo incisivo. Efficacissimo, e complesso, il ritratto del Conte di Luna costruito da Christopher Maltan. E splendidamente omogeneo tutto il cast, bravissimi l’orchestra e il coro del Teatro.
Applausi per tutti, a dire il vero meno calorosi di come tutti avrebbero meritato.