«Se smettessi morirei», lo ha ripetuto tante volte negli ultimi anni, quando a una tournée d’addio seguiva un’ultima grande serie di concerti, e poi un’altra ancora. Eppure Charles Aznavour – morto ieri nella sua casa delle Alpilles, nel sud della Francia – è riuscito a non farsi mai percepire come un sopravvissuto di un’epoca lontana, benché, in novantaquattro anni ha attraversato la storia, diventando una leggenda vivente della canzone. Una stella che si sarebbe potuta spegnere molto prima, nel 1955, con il tremendo incidente stradale a Saint-Tropez che lo costrinse a letto per mesi. Il trentunenne Charles Aznavour aveva raggiunto una certa notorietà, ma senza incidere nella storia della canzone, ogni anno le speranze di arrivare in vetta si facevano più flebili. Neppure il debutto all’Olympia nel 1956 e il successo di Sur ma vie aveva ammorbidito i critici, che spesso si accanivano non solo sulle canzoni, sulla presenza scenica, sulla voce e sull’inimitabile, inconsueto, travolgente modo di porgere le canzoni.

Tutto cambia dopo qualche anno, in una sola sera, una di quelle notti di consacrazioni che sono il segno distintivo della carriera dei grandissimi. Nel 1960, a dicembre, nell’immensa sala dell’Alhambra, Aznavour canta Je m’voyais dejà, la storia di un artista mancato, di un successo mai arrivato. Il pubblico impazzisce, la carriera esplode, la via del successo si schiude per sempre. Tutta la vita precedente improvvisamente prende le sembianze di un incredibile romanzo. Nato il 22 maggio 1924 a Parigi, Chahnourh Varinag Aznavourian è figlio dei rivolgimenti e delle tragedie dell’inizio del secolo.

Quando nasce la sua famiglia è in transito a Parigi, in attesa di un visto per gli Stati uniti, paese dove poi, a partire dagli anni Sessanta, Aznavour spopolerà vendendo milioni di dischi. La madre è fuggita da Smirne, scampata all’annientamento del genocidio armeno, il padre è figlio di un cuoco del governatore zarista d’Armenia, entrambi cantano e recitano.

La musica lo avvolge sin da bambino, prima ancora di debuttare come attore nel 1933 il piccolo Charles è un violinista di strada. Il debutto al cinema avviene, non accreditato, nel 1936 in La guerre des gosses di Jacques Daroy, iniziando una carriera parallela di non poco conto, dall’apparizione in Le Testament d’Orphée di Cocteau a Les Draguers di Mocky fino a Candy accanto a Marlon Brando, il Tamburo di Latta di Schlöndorff e I fantasmi del cappellaio di Chabrol, senza dimenticare il suo ruolo più bello, il pianista fallito di Tirate sul pianista di Truffaut, nel 1960. Le prime canzoni importanti nascono insieme a Pierre Roche, con cui fa coppia negli anni terribili a cavallo della seconda guerra mondiale.

Roche propizia anche l’incontro con Edith Piaf, subito dopo la guerra, con la leggendaria tournée in Usa e Canada, dove raccoglie le prime affermazioni. «Le petit Charles» resta accanto alla Piaf, per quasi otto anni, e in attesa che la carriera decolli scrive anche per Becaud e Juliette Greco. Poi in pochi anni tutto cambia. Dagli anni Sessanta in poi non si contano i successi, da Parce que a Au creux de mon épaule, Il faut savour, La Mamma, Come è triste Venezia, la Bohéme, For me Formidable, Désormais, canzoni che raggiungono tutte la vetta della classifica, non solo in Francia. In breve Aznavoir con le sue canzoni entra nel repertorio di molti altri artisti, specie negli Stati uniti, dove stabilisce un rapporto speciale con Liza Minnelli.

Non si contano gli italiani che hanno cantato le sue canzoni, da Gino Paoli a Battiato, da Mina a Ornella Vanoni, da Modugno a Renato Zero. Il primo album del suo immenso lascito discografico in Italiano è del 1964 e negli anni Settanta la sua presenza in Italia dell’interprete dell’Istrione si intensifica anche a causa di un processo per frode fiscale che lo tiene lontano dalla Francia. Accanto all’inesauribile produzione di canzoni Aznavour non ha mai smesso di calcare la scena, cantando in almeno sette lingue, incantando le platee di tutto il mondo fino agli ultimi anni con la forza magnetica della sua presenza. Anche se la memoria e l’udito gli davano ormai più di un pensiero sapeva affrontare i mali della vecchiaia mantenendo invariato il carisma e sfruttando al meglio le risorse di una voce immediatamente riconoscibile. Non ha mai dimenticato la causa armena, per la quale nel 1989 ha radunato intorno a sé moltissimi artisti, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla contingente tragedia del terremoto ma anche su quelle, atroci, del genocidio e della diaspora.
Molte delle sue canzoni hanno sfidato taboo e pregiudizi, specie in tema di sesso, e nel 1972 ha scritto Comme il disent, delicata, struggente canzone su omosessualità e travestitismo, entrata poi nel repertorio di tanti artisti, fra cui Marc Almond.