Per farsi un’idea ottimistica e assolutamente non rappresentativa dell’umore nazionale a pochi giorni dal fatidico 29 marzo, il Brexit day, basta prendere la metro Victoria, direzione sud, fino al capolinea di Brixton, municipio di Lambeth, South London. Già quartiere-ghetto destinazione forzata della comunità migrante caraibica, storicamente malfamato attraversato da riot epocali negli anni Ottanta, da alcuni anni Brixton è stato investito dall’onda lunga della gentrificazione. Sotto le arcate di ferro battuto del mercato coperto, un tempo monopolizzato da ortofrutta e drogherie a buon prezzo, prendono sempre più piede negozietti vintage e ristoranti etnici pensati per una classe di consumatori già maggioritaria in diverse aree dell’East End: i cosiddetti «creative professionals».

LA MIGRAZIONE DI MASSA dei creativi a Brixton ha determinato non solo un’impennata nei prezzi delle stanze in affitto, ma ha fatto dell’intero municipio di Lambeth la roccaforte dell’opposizione londinese alla Brexit. Qui, nel referendum del 2016, quasi l’80% dei votanti ha scelto di rimanere nell’Unione Europea, superando ogni altra circoscrizione del resto del Paese. Qui, a quasi tre anni di distanza dal voto, trovare anche solo una persona a difesa del Leave è una missione impossibile.

Jacques, cittadino di origine francese residente a Londra da oltre dieci anni, gestisce un caffè vicino al mercato. Dice che dal 2016 a oggi molta gente si è resa conto di aver fatto «un errore enorme» votando per la Brexit e considerando la mole imponente di informazioni intorno alle conseguenze economiche in caso di uscita dall’Unione Europea «sarebbe il caso di indire un secondo referendum e chiedere alla gente cosa ne pensa ora, essendo meglio attrezzati per prendere una decisione con cognizione di causa». Imran, di origini pachistane, parla addirittura di «arroganza degli inglesi» per aver scelto di andarsene dalla Ue: «Qui c’è bisogno di gente che lavori e tutti, asiatici, europei e anche britannici, in ogni negozio qui intorno c’è bisogno di lavoratori». Luke, nato e cresciuto a Londra, lavora come cameriere in un ristorante italiano a Brixton Village. Per lui chi ha fatto campagna elettorale a favore di Brexit dovrebbe essere portato in tribunale, ma il Paese dovrebbe comunque farsi carico dei propri errori e andare avanti tenendo fede all’esito del referendum.

Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, in uno scenario di no-deal Brexit – uscire dall’Ue senza aver trovato un accordo con Bruxelles – il Regno Unito potrebbe perdere fino a 8 punti percentuali del Pil. Una flessione di gran lunga peggiore della crisi finanziaria globale del 2008.

FUORI DALLA RISERVA multiculturale e liberal di Brixton, il giudizio sul destino imminente del Regno Unito si fa sempre più sfaccettato, con segmenti di medio-alta borghesia tendenzialmente bianca più proni a sposare una retorica sovranista che nel Paese, come in gran parte del Vecchio Continente, si è infiltrata nelle crepe identitarie provocate dalla globalizzazione. Un giovane studente universitario che preferisce rimanere anonimo spiega che votando pro-Leave tre anni fa ha voluto solamente manifestare il desiderio di «riprendersi la sovranità del Paese», nella speranza che il Regno Unito torni a essere completamente indipendente da decisioni di carattere economico e sociale «imposte da Bruxelles».

In questi mesi tutti, indipendentemente dalla propria opinione su Brexit, non hanno potuto sottrarsi al bombardamento giornaliero di notizie, indiscrezioni e analisi intorno al 29 marzo. Un filone giornalistico virtualmente inesauribile che, per i meno appassionati di tatticismi politici e intrighi parlamentari, è risultato in una sorta di accanimento terapeutico da informazione. Considerando l’assurdità di una Brexit ormai dietro l’angolo totalmente presa in ostaggio da aritmetiche parlamentari di difficile comprensione per gli addetti ai lavori, figurarsi per i lettori occasionali, più ci si avvicina alla fine del mese, più la soglia di sopportazione del pubblico sul tema si assottiglia.

TRA I NON POLITICIZZATI prevale un senso di frustrazione misto a rassegnazione, come a dire «non si saprà nulla fino al 29, nel frattempo tuteliamoci come si può». Molti lavoratori contrattualizzati europei hanno già fatto richiesta ufficiale per il permesso di residenza, paracadute minimo in caso Brexit vada effettivamente in porto. Stefania, che da anni lavora in una affermata compagnia di software britannica, racconta che l’azienda non ha licenziato nessuno e anzi, si è impegnata a rimborsare ogni eventuale spesa amministrativa che i lavoratori dovranno sostenere per formalizzare il proprio status di residenti permanenti nel Regno Unito: «Le compagnie hi-tech che lavorano difficilmente lasciano andare i loro tecnici», spiega Stefania, «sono i lavoratori non specializzati a rischiare più di tutti». Esemplificativo, in questo senso, è il recente annuncio da parte di Honda di voler chiudere i propri impianti a Swindon entro il 2022. La fabbrica, aperta nel 1989, produce automobili per il 90% destinate al mercato europeo e statunitense. I lavoratori a rischio licenziamento sono 3.500.

In ordini di grandezza minori, anche il settore delle start-up tecnologiche sta già iniziando a subire i colpi dell’incertezza che Brexit ha diffuso nel mercato. Claudio, che da meno di un anno lavora in una start-up di intelligenza artificiale, racconta di un fuggi fuggi generale di investitori non più disponibili a sostenere progetti promettenti ma ancora in fase embrionale. Risultato: nell’incubatore dove lavora le scrivanie vuote si moltiplicano, si preparano curriculum per piazzarsi in realtà più strutturate, chi ha un’offerta migliore magari a Berlino sta già interessandosi al mercato immobiliare tedesco.