Si intitola Il grande azzurro ed è il secondo romanzo della ghanese Ayesha Harruna Attah a essere tradotto in Italia per Marcos y Marcos (pp. 320, euro 17, traduzione di Francesca Conte). Prende le mosse dal precedente I cento pozzi di Salaga (uscito nel 2019), ereditandone le tematiche e alcuni personaggi, ma espandendo la narrazione in un contesto internazionale e trans-atlantico, arricchendo di voci e dettagli storici e facendo un ritratto vivido e particolareggiato delle società e culture sincretiche che la diaspora africana ha generato.

SE NE «I CENTO POZZI» infatti l’autrice si era focalizzata sulla storia di due donne, Wurche e Aminah, una principessa e l’altra schiava, mettendo in luce il fenomeno ancora poco noto e dibattutto della schiavitù interna al continente, qui le protagoniste sono due gemelle (sorelle minori di Aminah), strappate a dieci anni dalla quiete del villaggio da dei predoni, separate e vendute in schiavitù, che si troveranno ad attraversare il mare e l’oceano, ripercorrendo le rotte della tratta triangolare e riconnettendo le loro vicende individuali a quelle di colonialismo, schiavismo e sua abolizione, dispersioni e ritorni alla terra delle origini e degli avi, collocandosi ancora una volta nell’ultimo decennio del XIX secolo. Hassana, la gemella più forte ed estroversa, rimane in Africa, impara l’inglese in una missione cattolica dove tentano di convertirla al cristianesimo e diventa insegnante; Husseina, la più timida e schiva, parte per il Brasile, dove abbraccia una religione sincretica degli ex schiavi e diventa seguace di Yemanjà, dea delle acque, ma in entrambe rimane vivo il desiderio di ritrovare la propria metà perduta, separata nei loro sogni dal «grande azzurro».

LA VITA DI ENTRAMBE è costantemente marchiata dalla perdita, come quella dei milioni di africani che hanno subito la schiavitù e la deportazione nei secoli bui della tratta, a cui si aggiunge una serie di soprusi doppiamente inferti alle donne, soprattutto da parte di uomini sordidi e meschini, che le acquistano, vendono e sfruttano come merci, ma anche di incontri fortuiti, offerte di protezione e benevolenza, che le portano gradatamente verso l’affermazione delle loro diverse identità e verso la liberazione. Nell’età dell’adolescenza e in mondi lontani e molto diversi tra loro, le due gemelle lottano per essere libere di esprimere il proprio talento nel lavoro e affermarsi nella società. Hassana ad Accra e poi a Cape Coast viene in contatto con la realtà mutevole e febbrile dell’Africa di fine Ottocento, dove serpeggiano i movimenti abolizionisti (come l’Associazione per i diritti dei nativi della Costa d’Oro o delle Donne native di Cape Coast), ode delle lotte tra inglesi e ashanti, dei progetti di spartizione tra le potenze coloniali europee e di nuove leggi sulla proprietà terriera (che porteranno all’espropriazione e graduale sottomissione degli africani: il Ghana fu colonia britannica fino a sessant’anni fa, e la prima a raggiungere l’indipendenza nel 1957), ma trova nell’istruzione una possibilità di fuga e redenzione, che stimola la sua creatività, fino ad indurla ad affermare una sua voce attraverso la scrittura e a raccontare la sua storia dal suo punto di vista.

HUSSEINA, per una serie di «passaggi di proprietà», si ritrova a Lagos in una comunità di Aguda (primi schiavi liberati che a partire dagli anni Trenta dell’800 erano rientrati dal Brasile in Nigeria, importandovi credenze, usanze e pratiche sudamericane), che venerano gli orixà partecipando ai riti candomblé nella foresta: «I tamburi suonano sempre la stessa canzone. Un richiamo a raggiungerli. Lei è sopraffatta, invasa dalla loro musica, il corpo si scuote al loro ritmo. La melodia fa ondeggiare il suo corpo avanti e indietro, ne solleva le membra fino al cielo. È libera, vortica, come risucchiata verso la terra, e poi si risolleva. È una spirale senza fine. Può fare qualsiasi cosa. È pronta per il viaggio». Ribattezzata Vitoria, attraversa una prima volta l’oceano, approda a Bahia, dove incontra l’amore, e nella sua danza di iniziazione a Yemanjà trova finalmente una sua forza interiore «Fluttua. Attorno a lei c’è una musica dolce che la culla. Diviene acqua, tenuta a galla da una forza che è come casa, come onde, come l’abbraccio di una madre. È protetta dall’amore, dalla casa, ed è piena di coraggio», ma il richiamo della sorella perduta continua a giungere insopprimibile dal mare.
Ayesha Harruna Attah è nata ad Accra nel 1983, sotto il regime militare, ma in una famiglia di giornalisti molto aperta in cui le storie erano il pane quotidiano. Ha studiato alla Columbia e alla New York University, per poi tornare in Africa e cominciare a scrivere. Oggi vive in Senegal ed è ritenuta una delle giovani voci più forti della letteratura africana di inizio millennio.