Alle proteste di questi giorni, le autorità della Repubblica islamica hanno reagito con i gas lacrimogeni e qualche arresto. Le manifestazioni sono cominciate lunedì, quando migliaia di persone sono scese in strada a Teheran per lamentarsi della crisi economica.

A spaventare ayatollah e pasdaran sono tre fattori: il numero di manifestanti è simile a quello del 2012, quando gli iraniani si erano mobilitati per convincere le autorità a tornare al tavolo dei negoziati sul nucleare per mettere fine alle sanzioni e all’embargo petrolifero; in questi giorni le proteste hanno luogo nella capitale e non in altre località come a fine 2017 e a inizio 2018; la gente è scesa in strada davanti al parlamento, ma teatro del dissenso sono soprattutto i bazar e quindi i mercanti, quel ceto sociale che nell’ottobre 2008 si era ribellato all’imposizione di una tassa del 3% sul valore aggiunto da parte dell’ultraconservatore Ahmadinejad.

Nella storia dell’Iran, i mercanti sono da sempre il motore del cambiamento. Erano stati loro, i bazarì, a finanziare la rivoluzione del 1979, portando alla caduta dello scià. Negli anni Sessanta e Settanta l’opposizione alla monarchia era rappresentata dal clero sciita (irritato perché le riforme imposte dall’alto toccavano i loro interessi) e dai mercanti (minacciati dalle tasse e dai tentativi delle autorità di controllare i prezzi).

L’alleanza tra moschea e bazar era suggellata dalle imposte religiose pagate dai mercanti. In cambio, i bazarì pretendevano un sostegno dai mullah.

Tornando indietro nel tempo, la prima protesta popolare risale al 1891-92: Naser al-Din Shah aveva dato a un inglese la concessione per lo sfruttamento e la vendita del tabacco, largamente consumato in Iran. Con una fatwa (un decreto religioso), l’ayatollah Shirazi vietò agli iraniani di fumare. I mercanti e i religiosi fecero fronte comune, astenendosi dal fumo e obbligando il sovrano ad annullare la concessione.

Fu la prima alleanza pubblica tra il clero e il bazar, due gruppi legati tra loro anche perché i figli dei religiosi sposano le figlie dei mercanti e viceversa.

Ormai, il clero sciita e i mercanti non sono più allineati sulle stesse posizioni: in questi quarant’anni di Repubblica islamica gli ayatollah hanno consolidato il proprio potere politico e al tempo stesso si sono arricchiti. Fatto non irrilevante, gli ulema controllano (insieme ai pasdaran, le Guardie rivoluzionarie) le forze armate, i servizi di sicurezza e gli apparati di polizia. Si è così venuta ad alterare la tradizionale alleanza tra la moschea e il bazar.

In questi giorni, i bazarì hanno tenuto le serrande abbassate. Protestano per il carovita, la svalutazione del rial e il divieto di importare 1.300 prodotti, fenomeni causati dalle sanzioni americane. L’obiettivo dei mercanti sono probabilmente le dimissioni – o l’impeachment – del presidente Rohani, percepito come troppo debole per traghettare il paese in questo momento di crisi sul fronte interno e internazionale. Sul fronte interno, l’esecutivo non pare in grado di gestire le incertezze del sistema economico.

Sono in molti ad affermare che, anziché prendersi la briga di trovare una soluzione ai problemi, fa lo scarica barile e biasima altre istituzioni, a cominciare dalla magistratura. C’è poi caso delle 5mila auto di lusso entrate in Iran, di contrabbando, senza che nessuno sia incriminato: passa il messaggio che farla franca è troppo facile.
In una situazione di grave crisi economica, può essere la goccia che fa traboccare il vaso.

In politica estera, l’Iran ha rinunciato alla sovranità nucleare in cambio di niente: gli americani non hanno rispettato l’accordo del luglio 2015, lasciando in essere le sanzioni che impediscono alle banche iraniane di rientrare nei circuiti finanziari internazionali. Dopo un primo anno di crescita al 12%, l’economia si è arrestata al 4%, ma le aspettative erano dell’8.

Infine, ieri la Corte Suprema Usa ha dato ragione al presidente Trump sul decreto esecutivo contro i musulmani, in cui sono inclusi i cittadini dell’Iran ma non dell’Arabia saudita. Una misura che mette in ulteriore difficoltà il presidente moderato Rohani di fronte al suo elettorato.