Identità e autoritratto con una particolare attenzione al «black body» sono tra i temi esplorati in occasione della 23.ma edizione di Paris Photo 2019, la più importante fiera internazionale di fotografia che si è svolta al Grand Palais dal 7 al 10 novembre. Il corpo come contenitore di esperienze individuali, classe, razza, genere, lotta per la conquista dei diritti è ridefinito nel lavoro di artiste di diverse generazioni come la statunitense Mickalene Thomas (1971), le sudafricane Zanele Muholi (1972) e Tshepiso Mazibuko (1995), la tedesco-ghanese Zohra Opoku (1976), nonché da Ayana V. Jackson la cui opera Tignon (2015) è esposta nella selezione di ritratti fotografici Collective Identity della collezione di J.P. Morgan.

«Un’immagine che si collega alla tradizione delle donne nere, o di sangue misto, di New Orleans di avvolgere la testa con un particolare copricapo chiamato tignon.» – spiega Ayana Vellissia Jackson (Livingston, New Jersey 1977, vive e lavora tra Johannesburg, New York e Parigi) – «Una sorta di turbante molto interessante fatto con meravigliosi tessuti. Ancora oggi, nella città della Louisiana, se ne vedono parecchi. Ma all’origine di questo copricapo c’è quella che viene chiamata Tignon Laws (la legge fu approvata nel 1786 sotto l’amministrazione del governatore Esteban Rodriguez Miró, ndr) che imponeva alle donne black, creole e indigene di coprire la capigliatura quando erano in pubblico. Una forma di controllo perché non entrassero in competizione con i canoni di bellezza delle donne bianche. Tuttavia, malgrado il tignon venga considerato da alcuni storici un modo per declassare, visibilmente e simbolicamente, le donne di colore che erano libere ad uno status inferiore di schiavitù, rimane comunque un bellissimo copricapo realizzato con tessuti e colori differenti, sete e cotoni, in varie fogge. Il costume richiedeva anche l’utilizzo di un cappellino alla moda che veniva poggiato sopra al tignon. Nel mio lavoro cambio il suo significato, associandolo ad un concetto di dignità. Si può avere la pelle di qualsiasi colore, essere liberi o schiavi, ma la dignità è qualcosa che nessuno può togliere».

Parallelamente, la fotografa e filmmaker statunitense, opera una decostruzione della ritrattistica stessa del XIX e XX secolo per mettere a fuoco questioni legate alla razza e all’identità culturale che nelle fotografie della personale Take Me to the Water (2019), organizzata recentemente alla Mariane Ibrahim Gallery di Chicago, si orientano verso una dimensione più visionaria e liquida, attraversata da un movimento pregno di significati. Un viaggio nella mitologia e nella spiritualità della cultura afro-americana che ritroviamo nelle grandi fotografie a colori (tutte realizzate nel 2019) esposte nello stand della stessa galleria al Grand Palais, tra cui Double Goddess … A Sighting in the Abyss, Consider the Sky and the Sea, The self-forgetfulness of belonging would never be mine, Cascading Celestial Giant I.

L’autorappresentazione permette alla fotografa di interpretare antiche leggende migrate dalle coste occidentali dell’Africa al continente americano (perfetta metafora della diaspora dei popoli africani), spesso considerate dai bianchi in una chiave negativa e associate alla magia nera, come quelle di Mame Coumba Bang in Senegal, del dio yoruba Olokun considerato il padrone dei mari o di Mami Wata che in occidente ritroviamo nelle figure mitologiche delle sirene, ibride e ambigue creature dal forte potere seduttivo.

Nell’universo creativo di Ayana V. Jackson c’è anche il riferimento al mondo sommerso di Drexciya, ispirato in parte al movimento culturale che fa capo al gruppo di gruppo di musica techno nato a Detroit alla fine degli anni ’80 intorno alla figura di James Stinson, che parla di un fondale marino in cui si aggirano i figli mai nati delle donne africane catturate e violentate, per poi essere gettate in mare durante la tratta degli schiavi. La musica è un elemento ricorrente nella ricerca dell’artista fin dal 2001, quando si reca per la prima volta in Ghana, terra d’origine della famiglia, dove una sorella di suo nonno era tornata negli anni ’70: il 2019, tra l’altro, è celebrato in Ghana come l’«Anno del ritorno», quattrocento anni dopo la partenza forzata di uomini e donne ridotti in schiavitù. Lì realizza la serie fotografica Full Circle: A Survey of Hip Hop in Ghana (2001) ricordandosi che al college, anni prima, aveva conosciuto uno studente di nome Abeku che gli aveva parlato degli artisti ghanesi di hip-hop. Anche la musica per Jackson è un atto di resistenza, quanto alla fotografia già all’età di cique anni possiede la sua prima macchina fotografica, ereditando l’entusiasmo paterno per questo mezzo. All’università sceglie sociologia, laureandosi nel 1999 allo Spelman College di Atlanta: «la fotografia e la sociologia sono nate più o meno nello stesso periodo, nel XIX secolo. Essenzialmente quello che mi ha affascinata, quando studiavo relazioni tra le razze in America Latina e nei paesi caraibici, era la grande enfasi nell’affrontare temi legati alla diaspora africana. È stato allora che ho capito che per me funzionava meglio illustrare questo tipo di argomenti, piuttosto che scriverne. La fotografia è un mezzo rapido per trasferire i concetti».

Decisivo, nel 2005, l’incontro con l’artista Khatarina Sieverding di cui ammira la forza espressiva dei ritratti fotografici, che era stata allieva di Beuys all’Accademia di Düsseldorf. Come «guest student» segue il suo corso di fotografia all’Università delle Arti di Berlino. Non solo studia critica e teoria della rappresentazione fotografica, diventa lei stessa protagonista delle sue opere. «Sono molto interessata alla ricerca che c’è dietro all’immagine, forse più che alla fotografia in sé», afferma l’autrice, lasciando che nei suoi lavori ci sia sempre uno spazio psicologico ed emozionale di condivisione.