Come si costituisce la soggettività umana? Come si forma la consapevolezza della nostra autonomia? Come ci attribuiamo l’autorità di giudicare norme, istituzioni, decisioni pratiche? Quando la filosofia moderna ha collocato al centro della propria riflessione il tema del soggetto, non si è subito posta il problema della sua genesi. Tutta la prima modernità assume l’individualità umana come un fondamento originario e originariamente libera.

È solo nel Settecento e soprattutto con l’Idealismo tedesco che sorge il problema della formazione del soggetto e dei suoi debiti nei confronti di ciò che lo ha costituito, ovvero nei confronti dello sfondo sociale e relazionale in cui ogni individualità si trova immersa e a partire dal quale essa forma progressivamente la propria identità.

Nel suo ultimo libro, Riconoscimento Storia di un’idea europea (traduzione di Flavio Cuniberto, Feltrinelli, pp. 184, e 22,00) Axel Honneth esplora tre differenti tradizioni filosofiche europee, quella francese, inglese e tedesca, per ricostruire le origini dell’attuale «teoria del riconoscimento».
In ognuna di esse infatti si trova depositata la tesi della strutturale dipendenza dell’identità individuale dalle altre individualità. La nostra soggettività ha un bisogno costitutivo dell’altro, il bisogno di essere riconosciuta, di diventare oggetto di attenzione, di ottenere stima e consenso sociale. Ma dipendendo dall’altro, cioè dalla socialità, essa diventa il prodotto di quei rapporti, il risultato sociale di relazioni di riconoscimento.

A dire il vero l’esplicita tematizzazione del riconoscimento emerge solo con l’opera di Fichte e Hegel, ma Honneth lo ritrova anche in quegli autori della tradizione francese e inglese, come Rousseau, Hume e Smith, che, senza nominarlo esplicitamente, ne fanno uso all’interno delle loro filosofie sociali. Differenti sono tuttavia le conseguenze che quelle differenti tradizioni traggono dalla dipendenza sociale dell’io.
La filosofia sociale francese si caratterizza – già a partire da La Rochefoucauld, proseguendo con Rousseau, e finendo poi, nel Novecento, con Sartre, Althusser e Lacan – per una valutazione profondamente negativa di questa dipendenza sociale. Nell’esigenza di riconoscimento si cela infatti il bisogno di apparire superiori agli occhi degli altri, in modo tale da ottenerne l’ammirazione. Ne esce un’identità fittizia, falsa e ipocrita, creata dal bisogno sociale, quasi imposta da esso. Invece di guadagnare se stesso, il soggetto finisce per perdere il proprio sé autentico, fino alla teorizzazione sartriana della degradazione dell’io o a quella althusseriana del suo assoggettamento da parte degli imperativi sociali.

Questa singolare compattezza del pensiero francese nel giudicare i rapporti di riconoscimento trova un’immagine speculare e rovesciata nella tradizione inglese. Qui la relazione sociale, invece che produrre un effetto negativo e distruttivo sull’individualità, diventa un incentivo a migliorarsi. La ricerca dell’approvazione sociale e il desiderio di ottenere una certa reputazione spinge gli individui a immaginarsi osservati da un soggetto collettivo, in grado di dare giudizi sui loro comportamenti.

Sia in Hume sia, soprattutto, in Adam Smith, gioca un ruolo decisivo l’idea proto-capitalistica e liberista, secondo cui la competizione e il confronto con gli altri spingerebbe «naturalmente» a migliorare se stessi. Ma l’elemento interessante che emerge da questa tradizione di pensiero (poi confermato anche da Stuart Mill) è l’idea che la nostra soggettività si senta giudicata da una sorta di osservatorio universale, cioè si ritenga sottoposta a standard normativi universali e che su questi standard tenda poi a calibrare i propri comportamenti. La moralità è perciò l’esito di un processo di socializzazione, nel quale la nostra soggettività si è formata interiorizzando regole morali universali.
Rispetto a queste due tradizioni l’idealismo tedesco introduce una concezione del riconoscimento ancora diversa e più profonda. E non solo perché, a partire da Fichte, esso viene tematizzato esplicitamente, ma soprattutto perché qui entra in gioco, accanto al bisogno passivo di sentirsi riconosciuti, la necessità attiva di riconoscere.

Tesi centrale di Fichte e soprattutto di Hegel è che non ci si può sentire riconosciuti senza riconoscere. Solo la reciprocità garantisce la piena realizzazione del rapporto di riconoscimento. La conseguenza è l’instaurarsi di una relazione normativa verso gli altri, che richiede rispetto, attenzione e riguardo, implica cioè il superamento del mero atteggiamento egoistico (ancora presente nella tematizzazione humeano-smithiana). La consapevolezza della nostra autonomia nasce da questo riconoscimento ma insieme ad essa nasce la consapevolezza dell’autonomia di chi ci riconosce. Entrambi si confermano nella loro libertà reciproca e nella loro limitazione reciproca.
Il lato interessante di questa indagine di Honneth sta nel mostrare quanto queste tre differenti tradizioni filosofiche europee siano singolarmente coerenti al loro interno e quanto mostrino, proprio in ciò, la specificità della cultura e della società in cui esse si sono sviluppate: il mondo della gara fra nobiltà e borghesia per disputarsi il favore del sovrano nella Francia dell’Ancien Régime, il capitalismo incipiente nella Gran Bretagna di Hume e di Smith, l’attesa di un riconoscimento politico per una borghesia tedesca ancora irrilevante nell’arretrata condizione dell’impero tedesco.

A partire da ciò, lo sforzo di Honneth è quello di comporre in una teoria unitaria queste differenti prospettive.
La mossa decisiva consiste nell’assumere come chiave teorica di fondo le tesi sviluppate da Fichte e da Hegel. Il motivo di questa scelta di campo sta nel fatto che per loro il riconoscimento non è semplicemente un fenomeno sociale ma è la base per la formazione della stessa soggettività umana. A differenza degli altri filosofi, per i quali l’individuo ha già una sua costituzione originaria che solo successivamente entra in un rapporto (più o meno felice) con la società, per Fichte e Hegel il soggetto nasce solo dal rapporto con gli altri e in particolare dalle relazioni di riconoscimento.

La nostra autocoscienza e la nostra autonomia sono il risultato di un processo di formazione sociale che passa attraverso tali relazioni. Su questa base diventa poi possibile per Honneth «completare» tale teoria innestandovi la critica al riconoscimento «patologico», teorizzata dai francesi, e l’importanza dell’osservatore sociale universale, necessario alla nostra formazione morale, teorizzato dagli inglesi.
Con quest’ultimo capitolo Honneth compie dunque un ulteriore passo nella costruzione della sua trentennale indagine sul riconoscimento, lasciando fuori, tuttavia, la tradizione filosofica italiana. Proprio la specificità storico-sociale della nostra tradizione – da Machiavelli a Vico per arrivare fino a Croce e a Gramsci – avrebbe consentito di introdurre ulteriori elementi in una teoria delle relazioni sociali che aspira a una completezza «europea». Un’operazione del genere, forse ostica per Honneth, attende la sua realizzazione da qualche bravo studioso italiano.